La paper compliance in materia 231

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Corte di Cassazione, sezione VI, 17 marzo 2016 (ud. 12 febbraio 2016), n. 11442
Interessante il passaggio motivazionale sulla c.d. paper compliance:

 

Le Sezioni unite, nell'affermare che il sistema normativo introdotto dal decreto legislativo n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un tertium genus di responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza, ha chiarito, in tema di responsabilità dell'ente derivante da persone che esercitano funzioni apicali, che grava sulla pubblica accusa l'onere di dimostrare l'esistenza dell'illecito dell'ente, mentre su quest'ultimo incombe l'onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi (S.U, n. 38343 del 24 aprile 2014, Espenhahn).
Fatte queste premesse, va osservato che nel caso in esame il c.d. modello 231 fu approvato dalla (Y) s.p.a. nel giugno 2004.
In sede di appello, la ricorrente aveva contestato le conclusioni del primo giudice in ordine all'inidoneità del suddetto modello.
La sentenza impugnata perviene al giudizio di inidoneità di tutte le cautele adottate a far data dal 2001 dalla (Y) s.p.a. - e quindi anche di quelle contenute nel modello -, evidenziandone le carenze, consistite nella previsione di misure preventive solo «sulla carta» e nell'assenza di alcun tipo di garanzia in grado di impedire o quanto meno rendere più difficile la partecipazione dei rappresentanti della (Y) s.p.a. alla complessiva corruzione attuata per aggiudicarsi i vari «treni» (quali, il comitato di controllo, l'internal audit, ecc.).
Si tratta di un giudizio di fatto non affetto dai vizi denunciati, in quanto la sentenza impugnata non ha tratto la prova dell'inidoneità del modello dalla mera commissione del reato di corruzione dai rappresentanti dell'ente.
La Corte di appello, dopo aver esaminato le cautele organizzative apprestate e averne stabilito la inidoneità, ha utilizzato quale argomento rafforzativo della sussistenza della responsabilità dell'ente quello di aver adottato una politica aziendale di mero formalismo cartolare («paper compliance policy»), come era dato trarre dalla sistematica violazione da parte dei suoi responsabili della normativa penale e dall'entità dei fondi impiegati nelle dazioni corruttive.
Invero, nel caso in esame, dal giugno 2004 sino al dicembre 2004, nonostante l'adozione del modello, si erano susseguite - senza alcuna soluzione di continuità rispetto a quanto avvenuto in precedenza - le attività corruttive realizzate da (Y) s.p.a. attraverso i suoi intermediari, che subivano una sospensione solo a seguito dell'inizio delle investigazioni penali.

Uno spunto in tal senso pure nella nota sentenza del Tribunale di Milano (sez. IV, 4 febbraio 2013, n. 13976) relativa al caso “contratti derivati” (poi riformata in appello).
Sul punto il Giudice testualmente affermava:
Sulla base di tali considerazioni non risultano nemmeno ipotizzabili profili di rilievo ai fini della verifica della sussistenza delle cause di esclusione della responsabilità dell’ente di cui all’art 6 d.lg. 231/2001: tutte le società ritenute responsabili hanno certamente adottato modelli di organizzazione e di gestione idonei, in astratto, a prevenire fatti come quelli fin qui considerati, ma, come si è visto, i modelli preesistenti non risultano aver avuto alcuna efficacia preventiva ed appaiono (ad una lettura non superficiale) solo una attenta precostituzione di alibi, al solo fine di garantire ai funzionari di grado superiore una specie di impunità per quanto eventualmente commesso dai vari sellers o traders nella stipula dei contratti effettuati.
Una riflessione in parte diversa, ma che va a completare il discorso che si sta facendo, è emersa anche nel procedimento c.d. “Farmatruffa”, conclusosi qualche anno fa dinanzi al Tribunale di Bari, laddove è stata evidenziata dai periti del G.I.P., in sede di incidente cautelare, una certa filosofia di costruzione del Modello e dell’OdV finalizzata a “scaricare a valle” le responsabilità dei vertici aziendali:
Ciò che viene in considerazione è un’istanza di controllo nei confronti delle posizioni di vertice e non tanto e non solo verso i dipendenti.
Ne deriva che la conformazione dell’organismo di vigilanza, pure rimessa alla discrezionalità di chi lo nomina (il CdA), non può, logicamente, prima ancora che giuridicamente, riversare una commistione tra controllori e controllati: non devono, cioè, essere chiamati a far parte dell’organo soggetti che svolgono funzioni di vertice e che, proprio per questa ragione (come vuole l’art. 6), sono sottoposti a controllo.
L’azienda ha incentivato significativamente la politica della prevenzione essenzialmente nei confronti dei dipendenti, specie sul versante dei rischi connessi alla commercializzazione dei farmaci.