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I presupposti costituzionali della responsabilità degli enti collettivi (I)

Non è sfuggito alla dottrina italiana il valore fondamentale dell'articolo 27 della Costituzione repubblicana per il nostro sistema di diritto penale; esso racchiude tutti i problemi relativi alle ragioni e ai limiti della criminalizzazione, nonché alle conseguenze - e reciproche influenze - di essi rispetto alle funzioni della pena .

1. Considerazioni introduttive.

Non è sfuggito alla dottrina italiana il valore fondamentale dell'articolo 27 della Costituzione repubblicana per il nostro sistema di diritto penale; esso racchiude tutti i problemi relativi alle ragioni e ai limiti della criminalizzazione, nonché alle conseguenze - e reciproche influenze - di essi rispetto alle funzioni della pena .

E' opportuno, quindi, che l'analisi del I° comma dello art. 27 tenga sempre presente la portata del 3° comma dello stesso (come ha evidenziato proprio la Corte Costituzionale nei suoi più recenti orientamenti).

La lettura definitiva del testo costituzionale, pur essendo di forte impatto per la sua lapidarietà , lascia il lettore all'oscuro di tutte le implicazioni in esso contenute, di tutte le sfaccettature di significato, nonchè del valore che esso possa racchiudere ai fini dell'argomento centrale del presente lavoro.

E così, ancora una volta, bisogna interrogare la storia, perchè attraverso essa si è compiuto il percorso della norma e il suo travaglio, raccolto e superato nella disposizione: "La responsabilità penale è personale".

Dal seno della I Sottocommissione, per la verità, la prima stesura della norma che emerse    (si trattava dell'art.11 del Progetto), conteneva la seguente disposizione: "le pene sono personali e proporzionate al delitto".

E' palese l'attenzione dei Costituenti per il momento dell'esecuzione, e ciò molto probabilmente era dovuto all'urgente preoccupazione di allontanare il ricordo e la futura possibilità delle efferate sanzioni "collettive" applicate dai nazi-fascisti.

E' dunque importante sottolineare che la norma, e il testo costituzionale tutto, nascevano nel grembo di una concezione democratica e rispettosa della dignità umana.

Illuminante, in proposito, l'intervento in Sottocommissione di Moro, il quale chiariva che "si risponde per fatto proprio e si risponde attraverso ogni partecipazione personale" e, concludendo, sottolineava come il principio di personalità fosse "un'affermazione di libertà e di civiltà".

Il successivo percorso della norma non fu lineare, ma osteggiato da una serie di emendamenti, alcuni dei quali ne auspicavano addirittura lo stralcio, poichè si riteneva che essa fosse troppo specifica, o meglio, specialistica.

Siffatta critica nasceva dalla forse giustificata preoccupazione che la Costituzione potesse sostituirsi al legislatore, rischiando di rendere in qualche modo inattaccabili - visto il carattere rigido della nostra legge fondamentale -  principi che invece afferivano alla teoria del reato ed erano collegati, in un equilibrio delicato, ai mutamenti della realtà sociale.

Questa precisazione ritornerà determinante, nel momento in cui si prospetterà l'ipotesi di una interpretazione evolutiva della norma in esame.

Gli emendamenti non furono accolti, ma, alla lunga, l'esigenza di cui erano forieri prevalse; per questo non risulta - quantomeno sulla carta - costituzionalizzato il principio "nulla poena sine culpa", oggi individuato, nelle più recenti ed attente interpretazioni dell'art. 27, come la chiave di lettura del principio di personalità.

Perchè si giunga a questa conclusione, però, è necessario e interessante seguire il percorso argomentativo della Corte Costituzionale, universalmente conosciuta come più autorevole interprete e custode, nel nostro ordinamento, dello spirito della Costituzione.

2. L'art. 27 Cost. nella lettura della Corte Costituzionale.

Ripercorrere l'iter argomentativo seguito dalla Corte nell'interpretazione del principio di personalità della responsabilità penale significa  scontrarsi con una tematica ancor oggi fertile: si tratta del delicato equilibrio di  rapporti tra la Norma Fondamentale e lo smisurato patrimonio legislativo del nostro Paese.

Difatti, soprattutto nelle prime sentenze della Corte, è palpabile l'imbarazzo con cui il Giudice affronta una normativa preesistente alla Costituzione - il codice Rocco, ad esempio, era del 1930 -; da qui la tendenza a procedere con cautela nei giudizi di illeggittimità, e quella di "salvare", manipolando le norme, la loro esistenza giuridica.

Storicamente questa situazione portò, per quel che ci interessa, a una prima "lettura minima" dell'art.27 Cost.

In pratica, anche a causa di autorevoli influenze, come quella di Bettiol , s'interpretò il concetto di "responsabilità personale" come mero "divieto di responsabilità per fatto altrui".

L'attribuibilità del fatto al soggetto era basata sul semplice nesso di causalità, cioè sull'attribuzione materiale del fatto all'agente: rimaneva esclusa ogni indagine di natura soggettiva.

Tale conclusione permetteva di salvare, in via generale, tutte le previsioni di responsabilità oggettiva contenute nella legislazione penale al tempo in vigore.

Ma la lettura restrittiva del comma 1 dell'art. 27 Cost. ha avuto immediate ripercussioni anche sul dibattito relativo alla responsabilità penale degli enti.

Partendo da una tesi finzionistica, infatti, è agevole concludere che, ipotizzando l'attribuibilità del reato alla persona giuridica, si finirebbe proprio col violare il divieto di responsabilità per fatto altrui, in quanto si occulterebbe la responsabilità dei veri agenti.

Ritorniamo al cursus interpretativo della Corte.

Dopo un ulteriore periodo, isolato dalla dottrina, di "transizione", in cui dalle sentenze emergeva la tendenza (per qualche autore "tensione") a richiedere un quid pluris di natura psichica rispetto al mero nesso di causalità materiale, si è giunti ad una radicale svolta.

Il riferimento è alla sentenza n.364 del 1988 , relativa all'art. 5 del c.p.; nello specifico, con essa si dichiarava la parziale illegittimità della norma nella parte in cui quella non escludeva l'ignoranza inevitabile dalla generale inescusabilità dell'ignorantia iuris.

Questa fu, però, soprattutto l'occasione per chiarire che: "il fatto imputato, perchè sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell' agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica".

Interessanti le argomentazioni attraverso cui la Corte agganciava l'indefettibilità del principio di colpevolezza alla funzione tendenzialmente rieducativa della pena, così come previsto allo stesso art. 27 comma 3 Cost.

Ancora in sentenza, infatti: "comunque s'intenda la funzione rieducativa (...), essa postula almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa, non ha certo bisogno di essere rieducato".

In definitiva, la funzione della pena sarebbe veramente effettiva solo nei confronti del soggetto che abbia volontariamente (pur se soltanto a titolo colposo) posto in essere un'azione socialmente antidoverosa; soggetto, cioè, che abbia agito in violazione del dettato legislativo, pur avendo la possibilità di orientare il proprio comportamento in maniera conforme alla norma.

Parte della dottrina, in proposito, ritiene che il presupposto comune della responsabilità penale consista nel "mancato dominio del dominabile" in contrasto con il precetto di legge .

Concludendo, l'affermazione del principio di colpevolezza come cardine del sistema penale è il naturale e coerente corollario degli altri principi fondamentali del nostro attuale ordinamento giuridico.

 Esso difatti va a completare la portata di norme quali, ad es., l'art.2 e l'art. 13 Cost., che sanciscono rispettivamente i valori della dignità e della libertà individuale; indi, nel suo specifico, funge da "argine garantistico" proprio a tutela della libertà di scelta e d'azione dell'uomo, che  in questo modo  non corre il rischio di essere penalizzato per azioni che sfuggono al suo controllo finalistico.

Non si può, a questo punto, tralasciare di accennare all'impatto della nuova lettura dell'art.27 sulle numerose previsioni di responsabilità oggettiva disciplinate dal codice Rocco e dalle leggi penali extracodicistiche.

La Corte, in realtà, mantenendo il suo atteggiamento cautelare, ha tenuto a specificare che non tutte le ipotesi rientranti nella previsione dell'art. 42 c.3 c.p. sarebbero contrarie al dettato costituzionale; l'illegittimità colpirebbe soltanto quelle fattispecie di responsabilità oggettiva "pura", nelle quali nessun elemento della fattispecie risulta attribuibile secondo un nesso psichico, sebbene di natura colposa .

Questa affermazione, per la verità alquanto generica, è stata accompagnata, nella tradizione della Corte, dalla tendenza alla salvezza di molte delle previsioni "incriminate".

Nello stesso tempo, tuttavia, la nuova rilevanza del principio di colpevolezza ha aperto il dibattito sull'opportunità delle riforme anche in una sede più appropriata; dal legislatore stesso, infatti, provengono spontanei adeguamenti al principio penale.

Un esempio fra tutti, la legge 19 del 1990, che ha stravolto il criterio di attribuzione delle circostanze aggravanti (art. 59 c.2 c.p.): da obiettivo com'era nell'impianto originale del codice, attualmente esso richiede un indice soggettivo di appartenenza al reo.

Nonostante ciò, non si può concludere asserendo un'assoluta fedeltà  del diritto italiano al principio di colpevolezza. 

3. Sui rapporti tra colpevolezza e responsabilità penale delle persone giuridiche.

Il principio nulla poena sine culpa, per le ragioni già accennate non espressamente costituzionalizzato dagli autori storici della nostra Carta Costituzionale, ha acquisito dunque dignità grazie al  costante sforzo interpretativo della Consulta.

Ciò non vuol dire, però, che il concetto di "colpevolezza" sia rimasto fissato una volta per tutte; il problema, pertanto, si sposta sul suo contenuto e, ciò che più ci riguarda, sulle conseguenze che esso può avere in relazione a una responsabilità delle persone giuridiche.

Anche per quanto riguarda il tema della colpevolezza è evidenziabile un'evoluzione, un percorso parallelo a quello compiuto dalla teoria generale del reato, e influenzato dall'accoglimento di specifiche visioni relative alle funzioni della pena.

 In via di esemplificazione, due sono le concezioni della colpevolezza che si sono distinte per originalità e autorevolezza: quella psicologica e quella normativa .

La prima si sviluppò nel seno del liberalismo ottocentesco ed ebbe una evidente ispirazione naturalista.

Secondo questa concezione, infatti, la colpevolezza si concretava nel nesso psicologico tra il singolo evento criminoso e il suo autore.

La maggioranza degli autori riporta una chiara definizione di suddetta visione, secondo la quale la colpevolezza sarebbe stata nel "rapporto psicologico" instaurato tra "l'agente e l'azione che cagiona un evento voluto, o non voluto, ancorchè preveduto, ma prevedibile".

Forte fu il legame della teoria con la concezione della pena come retribuzione; anzi, è da sottolineare il contributo che la prima diede alla seconda.

Se la colpevolezza era colpevolezza per il fatto specifico, in effetti, sul piano delle sanzioni la retribuzione veniva affiancata da una richiesta di proporzionalità, poichè la pena poteva ritenersi legittima solo se adeguata e limitata al disvalore dell'illecito commesso.

E ciò era quanto, dal punto di vista storico, soddisfaceva i fautori della teoria e le loro liberali convinzioni, poichè venivano superati i rischi di ripetizione delle iniquità e delle prevaricazioni nell'amministrazione della giustizia (triste ricordo di ogni regime assoluto).

Ma sul piano dogmatico la teoria in esame non tardò a mostrare le sue insufficienze, soprattutto in due direzioni.

Da una parte, infatti, non era riuscita ad elaborare un concetto unitario, di genere, che potesse racchiudere il dolo e la colpa, perchè, come si è visto, la concezione psicologica non si era mai staccata dal "mero dato" psicologico relativo ad ogni singolo fatto di reato, negandosi una visione più ampia e sistematica.

In secondo luogo, il giudizio di colpevolezza veniva appiattito a "nesso psichico astratto, fisso ed eguale in tutti i casi, perciò non graduabile", cioè insensibile rispetto ai numerosi fattori che nella realtà, invece, vengono a diversificarla: il riferimento è alle motivazioni dell'agire, al contesto e alle circostanze dell'azione stessa, alle condizioni personali e latu sensu sociali del reo.

Proprio nella consapevolezza delle lacune della concezione psicologica, e per il loro superamento, è venuta a evidenziarsi e a svilupparsi - sulle fondamenta poste da Frank - la nuova teoria della colpevolezza in chiave normativa.

Secondo tale visione il comportamento colpevole è legato a un atteggiamento antidoveroso della volontà, sia in caso di dolo che di colpa: difatti il loro "comune carattere normativo" sta "nella considerazione che il fatto doloso è un fatto volontario che non si doveva volere, e il fatto colposo un fatto involontario che non si doveva causare".

In pratica, argomento caro alla dottrina tedesca, il comportamento antigiuridico va a violare non solo la specifica norma positiva, ma altresì una più generale norma d'obbligo che impone al soggetto di comportarsi in modo conforme all'ordinamento.

Sul piano dogmatico, ciò porta a ritenere che per la costruzione della colpevolezza non sono sufficienti, come antecedentemente si riteneva, le due specie di essa (cioè il dolo e la colpa), ma necessitano  ulteriori elementi, tra i quali una posizione primaria - di presupposto - è occupata sicuramente dall'imputabilità.

Essa, intesa come adeguata maturità psico-fisica dell'agente, risulta indefettibile, in quanto la valutazione di rimproverabilità, insita nella dichiarazione di colpevolezza, è possibile solo se il soggetto è consapevole del dettato ordinamentale e del possibile disvalore della sua condotta in riferimento ad esso.

Così: "Intanto si agisce dolosamente in quanto si conosce la realtà e ci si rende conto della azione che si compie e dei risultati cui essa tende o conduce.

Intanto si agisce con colpa in quanto ci si comporti con imprudenza o negligenza, pur essendo capaci di agire diligentemente o prudentemente".

Di conseguenza, attraverso la concezione normativa, il giudizio viene sufficientemente individualizzato, tenendo conto delle circostanze esterne e dei processi interni di motivazione che hanno indotto al reato (è ormai noto il caso di scuola - riportato da Frank - che dimostra la diversa intensità di colpevolezza in un furto compiuto da un soggetto benestante per motivi futili, rispetto a un altro, ugualmente voluto, posto in essere da un soggetto in stato di miseria per la propria sopravvivenza).

Per quanto più matura e completa, neanche la concezione normativa, però, è stata esente da obiezioni.

Una di queste, particolarmente acuta, sottolinea come il rimprovero di colpevolezza, in una prospettiva estrema, non solo umilierebbe, ma addirittura stralcerebbe del tutto il dato psichico, il momento della volontà, per diventare un giudizio di valore assolutamente esterno ad esso.

L'individuo, a sua volta, da soggetto del comportamento colpevole, sarebbe declassato a mero oggetto di una valutazione che ha sede esclusivamente nella mente del giudice.

A questa posizione è stato risposto che, come è vero, la nostra dottrina non ha abbracciato siffatta ricostruzione del concetto di colpevolezza: questa, pertanto, rimane intrinseca al comportamento del soggetto, e si può qualificare, anzi, come "qualità" o "forma" della sua volontà.

Occorre ora analizzare le conseguenze dell'accoglimento dell'una o l'altra concezione sulla configurabilità della responsabilità di persone giuridiche, tenendo in debito conto che le conclusioni sono destinate a variare laddove si parta dall'ente inteso come finzione piuttosto che come realtà naturale.

Prendendo le mosse dalla prima concezione (c.d. teoria della finzione), come del resto già anticipato, ipotizzare la perseguibilità della persona giuridica cozzerebbe già con la lettura "minima" dell' art.27 c. 1 Cost., comportando la violazione del divieto di responsabilità per fatto altrui, e portando come conseguenza  l'irrilevanza penale  della condotta del soggetto agente.

Peraltro, l'interpretazione attualmente affermatasi della norma costituzionale come principio di responsabilità per fatto proprio colpevole, rischia addirittura di rafforzare la teoria della finzione, in quanto richiede coefficienti psicologici reali attribuibili esclusivamente alla persona fisica.

Del resto, tale asserzione non sarebbe messa in crisi neanche partendo da una concezione normativa della colpevolezza, in quanto, attraverso quest'ultima, ciò che viene ad essere punito è sì un atteggiamento antidoveroso, ma pur sempre di una specifica volontà.

In alternativa a quanto finora detto, è possibile prendere le mosse dalla visione che predica la reale esistenza dell'ente (teoria organica); ma anche in questo caso le soluzioni sono fortemente problematiche.

Questo soprattutto quando, aderendo alla concezione psicologica, sorgono chiare difficoltà nell' attribuire il dolo o la colpa alla persona giuridica; l'impasse però sembra essere superato proprio attraverso il ricorso allo strumento del rapporto organico. 

Difatti, in virtù di esso, è sempre un individuo che agisce, pur se in veste di organo e con imputazione diretta dell'azione all'ente.

Mantovani chiarisce in tal modo l'assunto: "Alla asserita incapacità delle persone giuridiche a porre in essere azioni penalmente illecite, sia materialmente che dolosamente o colposamente, è stato replicato che esse...sono capaci di azioni penalmente illecite attraverso i fatti dell'organo, che in forza del rapporto di immedesimazione tra organo e ente sono direttamente riferibili all'ente e alla sua volontà".

Volendo dare per scontata - come non è - la validità assoluta di siffatta soluzione, rimane irrisolto il problema in qualche modo inverso, ma altrettanto delicato, della perseguibilità del soggetto che ha  agito in qualità d'organo.

Per non incorrere nel rischio di un'obliterazione di questa effettiva condotta illecita, la soluzione preferibile de jure condendo sarebbe quella di optare per il meccanismo del concorso nel reato della persona giuridica e dell' individuo-organo.

Ricostruendo invece tutto il discorso a partire dalla concezione normativa, viene fuori che l'ente sarebbe responsabile quando volontariamente si pone in contrasto con il dettato normativo.

Tralasciando per ora i dubbi avanzati sulla compatibilità della responsabilità dell'ente con la funzione specialpreventiva della pena (corollario della concezione normativa), è interessante approfondire la natura della "norma d'obbligo" che la condotta illecita andrebbe in questi casi a violare.

Scartata l'ipotesi, incompatibile con i nostri principi costituzionali, di un contenuto etico della stessa, e quindi di una antidoverosità vista come violazione di un dovere morale, ne consegue che illecito può qualificarsi solo quel comportamento contrario a dati assetti economici e sociali che in un determinato contesto siano ritenuti degni di protezione giuridica.

E così il cerchio si richiude sul valore relativo del tema della persona giuridica: esso ancora una volta si presenta come "un problema, più che ontologico o dogmatico, di sistemi politico economici e di pratica utilità ed efficacia".

Un analisi sul campo dimostra infatti come, nei Paesi socialisti, per fare un esempio, l'infallibilità dell'"impresa di Stato" ha comportato l'inconcepibilità della sua responsabilità penale, e il conseguente accentramento della stessa in capo ai singoli dirigenti e amministratori.

In ordinamenti come quello italiano si è raggiunta la stessa conclusione, ma su presupposti totalmente differenti: la presenza di norme di rilevo costituzionale (come il nostro art.41 Cost.) che esaltano l'iniziativa economica privata e legittimano l'accumulazione del capitale, ha giustificato la protezione dell'impresa decretandone l'intangibilità penale.

Per questo motivo la consapevolezza che la realtà  segue tutt'altro binario, poichè è palese ormai che nei fatti  "societas saepe delinquit", fa vacillare l'intero apparato normativo e richiede una difficile riflessione sugli stessi principi che ne sono il fondamento.

- continua -

(Marta Silano)

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