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I presupposti costituzionali della responsabilità degli enti collettivi (II)

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4. La funzione costituzionale della pena e la sua compatibilità con la responsabilità dell'ente.

Per Pagliaro non è possibile separare il profilo del reato da quello della sanzione, così come il reo non può non essere il destinatario della punizione.

L'autore infatti ribadisce: "Questa posizione è unitaria: non vi è un soggetto, il quale sia punto di imputazione del lecito o dell'illecito, ma non costituisca anche il punto di imputazione della sanzione favorevole o, rispettivamente, sfavorevole (...)" .

Da questo assunto, apparentemente banale, si evince la correlazione ineludibile tra i due piani, sicchè la "bontà" di ogni teoria dev'essere necessariamente verificata anche in relazione alla sua compatibilità con i principi vigenti in materia di sanzioni, oggi racchiusi prevalentemente nell'art.27 c.3 Cost.

Attualmente nessun autore può porre in dubbio la centralità del dibattito sulla funzione della pena, che è un cardine dell'intera normativa penale; la sua rilevanza travalica il momento della esecuzione, della pratica inflizione della sanzione.

Pertanto, prima di analizzare alcune problematiche posizioni dottrinali in materia, pare opportuno fare un breve excursus di quelle che sono le linee guida del sistema sanzionatorio, di come esse si sono nel tempo evolute, e di come si presentano all'interno dell'ordinamento italiano attuale.

Per quanto riguarda un'analisi generale, si può affermare che la giustificazione della pena ha tradizionalmente ruotato attorno a tre basilari opzioni: la prevenzione generale, quella speciale e la retribuzione.

La prima è concetto antico, che alcuni autori fanno risalire  ai filosofi: si ricorda Seneca e il brocardo a lui attribuito "nemo prudens punit quia peccatum est, sed ne peccetur".

Per semplificare, la pena, sotto il profilo generalpreventivo, avrebbe la funzione di distogliere i consociati dal delitto: meccanismo di deterrenza che si innescherebbe e sarebbe effettivo soprattutto al momento della minaccia della sanzione.

La debolezza di questa visione sta nel fatto che il soggetto delinquente viene sempre considerato come un individuo che razionalmente decide come orientare la sua condotta, dopo averne valutato i costi e i benefici.

Ciò evidentemente non può ammettersi per tutti i reati (si pensi ai "delitti d'onore"): però si può insinuare che questo tipo di soluzione si addice al fenomeno della criminalità economica, dove il "costo" di un possibile illecito suscettibile di portare un guadagno all'azienda potrebbe essere incluso nel "rischio d'impresa".

Inoltre, l'accoglimento della teoria generalpreventiva, nell'intento di ottenere il suo effetto intimidativo, rischia la strumentalizzazione del singolo reo; per questo motivo essa può ritenersi legittima solo se si tengono fermi il principio di proporzionalità della pena e il divieto di trattamenti inumani.

Con il concetto di prevenzione speciale, invece, si vuole indicare la funzionalizzazione della pena ad operare sul reo: così intesa essa ha la sua "sede" nell'applicazione della sanzione - ed è orientata ad ottenere, a seconda delle specifiche visioni, un'emenda morale, una neutralizzazione della pericolosità, oppure la "rieducazione" del delinquente.

Nel concetto ampio di rieducazione - che si avrà modo di approfondire fra breve -si condensano gli sviluppi più attuali della prevenzione speciale, definita in questo caso "positiva"; nello stesso senso si hanno nuove interpretazioni del principio generalpreventivo, che avrebbe anche una funzione di orientamento dei consociati verso i valori del diritto .

Ultima, l'idea retributiva della pena, che ha avuto sostenitori illustri come Kant,  Bettiol e Santamaria; essa parte dal presupposto che la punizione non possa che essere il contraltare del male commesso ("malum passionis propter malum actionis").

Una volta depurata dalle sue derivazioni etiche e religiose e quindi dall'idea di "punizione per il peccato", la retribuzione è in grado di offrirci la sostanza di un principio fondamentale del nostro sistema punitivo: si tratta del già menzionato principio di proporzionalità tra delitto e castigo (di cui all'art. 3 Cost.).  

Il valore della sanzione deve essere proporzionale al disvalore della condotta illecita: è palese quanto questa affermazione possa allontanare il fantasma del terrorismo punitivo.

Anche la teoria retributiva ha avuto la sua "evoluzione" nel corso del tempo: le visioni "neoretribuzionistiche" riconducono ad un concetto di catarsi, vale a dire di neutralizzazione delle pulsioni criminose dei consociati ottenuta tramite la effettiva punizione dei rei, che dà soddisfazione alla società.

Restano così sintetizzati i possibili fondamenti teorici della legittimazione delle sanzioni.

Bisogna ora affrontare l'esperienza storica, e quindi analizzare come, in Italia, si sono accolti e "positivizzati" questi concetti.

Come si vedrà, una delle finalità per cui, prima del 1930, si era propugnata la revisione della normativa penale era quella di dare una risposta forte all'escalation della criminalità.

Pertanto, per lo sforzo di perseguire una maggiore severità ed effettività nelle sanzioni, il codice Rocco è giunto a noi caratterizzato da un sistema punitivo originale, rivelatosi tuttavia nel tempo irrazionale e compromissorio: il cd. "doppio binario" di pene e misure di sicurezza.

Nell'intento del legislatore penale, a queste ultime sarebbe affidato il compito di neutralizzare la "pericolosità" di determinati individui, restando così soddisfatta l'esigenza specialpreventiva, intesa nella sua portata più ristretta, vale a dire come "neutralizzazione" del soggetto.

Le pene in senso stretto, invece, avrebbero la funzione generalpreventiva di distogliere i consociati dal reato, tramite l'intimidazione causata dal rischio della punizione, ma anche la già accennata soddisfazione per la punizione altrui (quindi con un riconoscimento, in via strumentale, della retribuzione).

Una prospettiva affatto diversa è inaugurata dal testo costituzionale, in cui le opzioni relative alla pena si concentrano nel puntuale, quanto incisivo disposto dell'art.27 c.3: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione".

La coraggiosa e definitiva presa di posizione in favore della finalità rieducativa non può essere considerata come una "rottura" con la normativa penale precedente, ma si propone come conseguenza coerente dell'impostazione filopersonalistica della Costituzione.

La norma è stata appunto definita "frutto di una nuova sensibilità politica", la stessa sensibilità che ha portato all'esaltazione della libertà personale nello specifico, e della dignità dell'individuo in via generale (artt.2, 13 Cost.).

Tuttavia, fino alla metà degli anni ‘60, anche questa norma è stata oggetto della cd. "inversione metodologica", ossia della lettura della Costituzione alla luce della normativa primaria; ciò, naturalmente, per salvare disposizioni e principi affermatisi antecedentemente al ‘48.

Così, la "tendenza" alla rieducazione si è voluta intendere come obiettivo meramente eventuale della pena, in modo che le opzioni sanzionatorie del codice penale non fossero messe in crisi.

Soltanto con la crescente influenza delle forze politiche progressiste l'interpretazione dell'articolo è tornata ad essere coerente con lo spirito dei Costituenti.

Infatti, in primo luogo è stato chiarito il concetto di rieducazione, che non è da intendersi come mera neutralizzazione del reo, bensì come positiva risocializzazione  dello stesso, tramite un individualizzato percorso di riappropriazione dei valori dell'ordinamento che sono stati violati.

Questo, però, in una prospettiva tendenziale, in cui la "tendenza" non riguarda la finalità rieducativa (che non può essere stralciata a favore della mera afflittività o retribuzione), ma il suo contenuto di risocializzazione.

Sono stati infatti evidenziati, dalla dottrina, seri ostacoli all'assolutizzazione di questo valore.

In primo luogo uno Stato laico, democratico e pluralista, per di più aperto e soggetto a flussi di immigrazione da più fronti, deve fare in modo che nella società possano liberamente circolare idee e valori, anche se poco "allineati" alla tradizione del Paese.

Ciò comporta che è giusta la repressione della violazione al dettato legislativo, ma non il coattivo piegamento delle idee "non politicamente corrette", o semplicemente "alternative" del reo al sentimento comune; resta fermo però il limite della "non desocializzazione", cioè della necessità di conservazione nel soggetto dei principi fondamentali della convivenza civile.

Inoltre, e questo è il secondo limite al principio di rieducazione, è chiaro che la pena non può avere una funzione di reintegrazione del reo, laddove quest'ultimo non abbia una personalità deviata e una situazione sociale e culturale tale da orientarlo al crimine.

E' il tema, caro alla criminologia, della "criminalità dei colletti bianchi", di quei soggetti, cioè, che rivestono posizioni di potere e supremazia nei sistemi politici e soprattutto economici; soggetti che non possono di certo dirsi dei desocializzati, ma che, all'opposto, talvolta sono gli stessi abilitati a porre le "regole" d' azione nel campo in cui operano.

Per tali soggetti,quindi, la funzione rieducativa non difetta, ma viene a essere in secondo piano rispetto alla più sentita esigenza di prevenzione generale.

In questa prospettiva va a collocarsi anche la problematica ipotesi di responsabilità dell'ente.

A questo punto, sembra opportuno affrontare le posizioni di quegli autori che, pur riconoscendo la configurabilità sotto il profilo dogmatico, della perseguibilità dell'ente, sono costretti ad arretrare di fronte ai nodi problematici che si vengono a creare nel rapportare le loro teorie ai principi sanzionatori in generale.

Si è già accennato alla posizione di Pagliaro.

Dello stesso disagio è espressione anche il pensiero di Alessandri, per il quale è "agevole intuire che la finalità rieducativa della pena finirebbe in forte tensione nella convivenza con la responsabilità delle persone giuridiche".

Difatti "non si vede proprio come poter sensatamente prospettare una rieducazione di chi non ha (non è) una personalità psicologicamente strutturata.

La pena verrebbe di conseguenza ad assumere una valenza esclusivamente afflittiva, modellata sull'antico schema del contrappasso, recuperato in chiave utilitaria.

Ora, si può ammettere che momenti di pura afflittività possano anche riuscire a coordinarsi con una generale impostazione rieducativa: ma ciò dovrebbe avvenire in funzione delle peculiari caratteristiche ‘personali' (integrazione sociale, educazione), non come assorbente ed unico contenuto di tutta una gamma di interventi sanzionatori".

Con l'estensione alle persone giuridiche, il principio di rieducazione risulterebbe stravolto in quanto sarebbe impossibile ottenere il concreto "ravvedimento" dell'ente, così come rassicurarsi sulla liceità del suo operato futuro, a causa della sua struttura collettiva e soggettivamente mutevole.

Questa, infatti, impedisce la formazione di una "intelligenza" coerente, capace di apprendere ed orientarsi secondo una linea di condotta che non sia la legge del mercato in cui il soggetto collettivo opera; di conseguenza, visto che lo stesso mercato esige flessibilità ed adattabilità nelle scelte, sarebbe pressocchè impossibile indirizzare la persona giuridica tramite il meccanismo innescato dalla sanzione.

In definitiva, per i fautori di questa posizione dottrinale l'ingresso nel panorama normativo della "nuova" responsabilità dei soggetti collettivi si risolverebbe in un regresso della cultura giuridica, poichè si dovrebbe necessariamente tornare alla retribuzione e alla deterrenza, per garantire un minimo di effettività alla sanzione.

Esistono peraltro numerose voci contrarie a questa impostazione: si sostiene che, benchè sia vero che il principio rieducativo è nato come modellato sull'individuo, non vi sia ostacolo - mutate le esigenze sociali - ad una sua estensione alla persona giuridica.

L'esperienza d'oltreconfine ci insegna come, in verità, istituti "inventati" per la persona giuridica siano proprio finalizzati al "rimodellamento"  della sua organizzazione: è il caso dei compliance programs dell'ordinamento statunitense, ma anche degli istituti di probation introdotti nel nuovo codice penale francese.

Il problema, quindi, va a concentrarsi sulle modalità, ossia sulle misure che possano garantire l'efficacia della pena e che siano confacenti alla natura dell'ente, nel rispetto del dettato costituzionale.

In quest'ottica, ad esempio, non è auspicabile, se non nei casi più gravi, il ricorso allo scioglimento coattivo della società,  che "risulterebbe strutturalmente incompatibile con la funzione rieducativa...contrastando con quegli stessi principi generali del nostro ordinamento che hanno portato al rifiuto della pena capitale" .

Altro filone dottrinale preferisce, in prospettiva, l'applicabilità all'ente della confisca, e in generale delle misure di sicurezza patrimoniali.

Esse, infatti, a differenza di quelle personali, sembrano costruite su un presupposto di "pericolosità" non di tipo soggettivo, ma piuttosto "connesso al bene medesimo, e alla possibile correlazione che viene ad instaurarsi tra quest'ultimo e il soggetto che di esso può disporre".

Da tutt'altro punto di vista, si è obiettata l'ingiustizia sociale dell'applicazione di sanzioni all'ente, in quanto esse andrebbero a colpire la sfera giuridica di soggetti innocenti (tra cui, soprattutto, i soci non amministratori); a ben vedere si tratta di una forzatura polemica, in quanto la generalità degli illeciti produce normalmente effetti indiretti su terzi (si pensi soltanto ai creditori o i familiari del fallito).

Sarà poi compito della stessa norma limitare siffatte conseguenze, con l'approntamento di specifici strumenti .

Quelli appena accennati sono soltanto alcuni dei problemi che si presentano a chi sia impegnato nell'adeguamento di principi e strumenti consolidati a una disciplina nuova, come quella in esame.

Pertanto, poichè questa situazione si è effettivamente presentata in occasione della stesura del d.lg. 231 del 2001, è opportuno rinviare all'analisi di questa normativa per l'approfondimento delle tecniche sanzionatorie utilizzate  da legislatore .

5 La disciplina codicistica: il ruolo dell'art. 197 del codice penale.

Mentre il dettato costituzionale si presenta all'interprete problematicamente più elastico e sfaccettato, pochi dubbi sorgono invece sull'impostazione del nostro codice penale in materia di persone giuridiche.

Prima ancora di affrontare il problema nella sua sede specifica, però, è bene proporre una panoramica sul contesto in cui il testo in questione è stato elaborato.

Il codice del ‘30 nasceva dall'esigenza di superare le lacune che quello del 1889 aveva evidenziato soprattutto nell'affrontare il dilagare, nell'immediato primo dopoguerra, della criminalità minorile, dei fenomeni di delinquenza abituale e della pericolosità degli infermi di mente.

Siffatte esigenze reclamavano, dunque, un codice costruito "a misura d'uomo": e tale fu il risultato, di cui sono testimonianza norme sparse in tutto il codice (dall'imputabilità al sistema sanzionatorio, alla commisurazione della pena).

In tale sistemazione, la "sede" dei problemi inerenti la persona giuridica è ristretta in una sola norma, l'art . 197 c.p.

L'"intuizione" legislativa ha in realtà il suo antecedente nella L. 4 del 1929, che prevedeva (al suo art. 10) un'obbligazione civile   e sussidiaria ("in caso di insolvibilità del condannato") di garanzia a carico degli enti riconosciuti, per reati contravvenzionali di natura tributaria commessi da soggetti funzionalmente legati alla persona giuridica.

La stesura definitiva dell'art. 197 ricalcava quasi pedissequamente la legge appena citata, con la differenza che l'obbligazione di garanzia veniva estesa a ogni reato contravvenzionale punito con l'ammenda; peraltro, venivano mantenuti il riferimento ai soli "enti forniti di personalità giuridica", con l'esclusione di Stato, Province e Comuni dal novero degli obbligati.

Che con l'art. 197 si risolvesse in senso negativo il problema della perseguibilità delle persone giuridiche emerge chiaramente dai lavori preparatori, nel corso dei quali veniva rilevato che "il nostro diritto positivo, almeno di regola, non riconosce agli enti collettivi la qualità di soggetti rivestiti di capacità penale".

Da più parti si è voluto leggere in quest'impostazione l'accoglimento pieno della teoria della finzione.

In realtà, continuando nella consultazione dei lavori, ci si accorge di come le radici teoriche del testo penale non fossero poi così incontestate e stabili.

Non mancava, infatti, la consapevolezza che tra l'ente e i suoi organi vi fossero "rapporti così essenziali da far ritenere che per gli atti da essi compiuti nell'esercizio delle loro funzioni, più che responsabilità indiretta, debba riscontrarsi responsabilità diretta degli enti di cui sono organi".

Nonostante ciò, però, la soluzione che prevalse fu quella di negare qualsiasi partecipazione dell'ente all'illecito, a titolo di responsabilità penale.

Venne infatti sottolineato che all'obbligazione di cui all'art. 197 c.p. non poteva neanche "assegnarsi carattere di obbligazione solidale, perchè la solidarietà presuppone unicità di fatti e pluralità d'autori, ciò che non ricorre nell'ipotesi presente".

Queste, in definitiva, le fondamenta e le giustificazioni storiche della norma in questione.

Altro discorso è andare ad analizzare la sua rilevanza e la sua funzionalità nella prospettiva dinamica dell'operatività del Codice Rocco.

Per una parte della dottrina la soluzione raggiunta sarebbe ancor oggi quella migliore, ritenendosi che il problema dell'attività illecita degli enti trovi una "idonea ed adeguata reazione nelle sanzioni di diritto privato e di diritto amministrativo", e non si vede perchè "si dovrebbero alterare i principi fondamentali della capacità e dell'imputabilità penale per ottenere infine un risultato meno efficace e meno giusto".

Nei fatti, però, si deve ammettere che raramente si è fatto ricorso, da parte della giurisprudenza, all'art. 197 c.p., probabilmente anche a causa della sua natura di obbligazione sussidiaria; e non è mancato chi ha ritenuto suddetta   disposizione strumento alquanto rozzo e irrazionale.

Non sorprende, quindi, date le premesse, che la norma analizzata sia stata coinvolta nella quasi totalità dei progetti di revisione del codice penale, ai quali è pertanto dedicato il paragrafo seguente.

6. Prospettive di riforma del codice Rocco

Pur essendo stato concepito in pieno periodo fascista, il codice Rocco, grazie soprattutto alla sua proclamata impostazione tecnicistica e tendenzialmente neutrale rispetto a contenuti ideologici, ha strenuamente resistito a ogni tentativo di un suo totale superamento.

Ciò che però ne ha reso necessaria una revisione è stata la sua "anzianità" - superiore di quasi un ventennio - rispetto al nostro attuale testo costituzionale: effettivamente si esigeva l'adeguamento e il coordinamento della normativa precedente rispetto ai nuovi principi.

Tra le varie proposte di riforma che hanno riguardato la normativa penale, due esperienze in particolare si vogliono evidenziare, sia per la loro attualità, sia per le conclusioni opposte che in esse si sono raggiunte rispetto al nostro tema; ciò che chiaramente dimostra come, in materia, le posizioni della scienza giuridica siano tutt'ora variegate e complesse.

Prenderò pertanto in esame i lavori della Commissione Pagliaro, istituita nel 1988, e, soprattutto, quelli della "Commissione di Studio per la riforma del Codice penale", istituita nel 1998 e presieduta da Carlo Federico Grosso.

Per quanto riguarda la prima, ai nostri fini è sufficiente rilevare che la Commissione, durante i suoi lavori e   nella stesura del Progetto finale, non poteva non essere fortemente influenzata dall'impostazione dottrinale del suo presidente.

Pertanto, nel Progetto Pagliaro non figura la responsabilità delle persone giuridiche, in quanto per lo studioso la perseguibilità dell'ente era impossibile, non dal punto di vista ontologico, bensì perchè lo stesso non poteva essere sottoposto a pena.

Ma non bisogna pensare che la Commissione operasse nell'ignoranza anacronistica dei problemi del suo tempo.

La dottrina infatti sottolinea lo sforzo della stessa nel "potenziare con altri strumenti il controllo sociale sulla criminalità d'impresa"; si porta come esempio la riflessione attenta sulle norme relative alla posizione di chi assume funzioni, oppure la definizione degli obblighi di sorveglianza la cui violazione comporti responsabilità per omissione.

Analisi più approfondita merita il lavoro della Commissione Grosso la quale, data la particolare congiuntura storica, elaborava il suo Progetto seguendo costantemente i lavori paralleli del Parlamento, che in quel periodo stava preparando la legge delega 300 del 2000 (testo da cui è derivato il  d.lg. 231/2001).

Il Progetto finale di riforma, licenziato nel 2000, contiene infatti un apposito titolo, il Settimo, rubricato "responsabilità delle persone giuridiche" (artt. 123-133).

Per comprendere lo "spirito" della Commissione, è utile partire dalla lettura della Relazione, presentata a corredo del Progetto.

In questa, dopo aver ribadito l'attenzione ai lavori parlamentari e al panorama europeo, si sottolineava come l'esigenza di una riforma verso la responsabilizzazione degli enti fosse interna all'ordinamento italiano.

Leggiamo: "Non si tratta semplicemente di introdurre istituti nuovi. Si tratta anche di raddrizzare istituti esistenti, che la mancata previsione di una diretta responsabilità della persona giuridica espone a uno stress gravemente deformante, con costi (in termini di denaro e di sperequazioni di trattamento) che ricadono non solo sulle persone fisiche autori di reato, ma anche sulle persone giuridiche, la cui estraneità al sistema penale è già oggi, di fatto e di diritto, mera apparenza".

L'attenzione della Commissione, consapevole delle "potenzialità criminogene" proprie delle strutture organizzate, andava soprattutto alla razionalizzazione di una normativa penale che si andava il più delle volte ad indirizzare contro soggetti che erano meri "esecutori materiali" di linee organizzative ad essi esterne, e proprie della persona giuridica a cui gli stessi si trovassero legati da un rapporto di dipendenza .

La Commissione dimostrava dunque una positiva apertura alla criminologia, poichè da questa era nata la riflessione sul "vischioso...contesto sottoculturale" in cui il soggetto sarebbe venuto a trovarsi nel suo rapporto con la societas, divenendo spesso lo strumento per la realizzazione di scelte strategiche allo stesso imposte, pena "l'espulsione o il blocco della mobilità verticale".

Ancora, la normativa era da rivedere anche sotto il profilo applicativo delle sanzioni, poichè si riteneva "irreale" l'inflizione ai suddetti soggetti di pene pecuniarie racchiuse in limiti edittali alquanto elevati per il singolo, e che invece sarebbero risultate proporzionate rispetto al patrimonio aziendale.

Non bisogna tralasciare che gli studiosi della Commissione non ignoravano l'ostacolo forse maggiore a una soluzione legislativa nuova, e cioè il principio di personalità della responsabilità, e in specie la sua lettura in chiave di colpevolezza (a difesa di questa si era posta la Commissione della Procura Generale presso la Corte di Cassazione); eppure, si ragionava concludendo che "l'identità fra autore dell'illecito e destinatario della sanzione può ritenersi assicurata quando la persona fisica autore dell'illecito sia un soggetto che ha ‘agito per' la persona giuridica, avendo ‘competenza a impegnarla'".

Che teoricamente si abbracciasse o meno la teoria organica, fatto sta che si finiva per "identificare la persona giuridica come soggetto di diritto e protagonista di concrete vicende nella vita della società" .

Oltre a ciò, in qualche modo veniva data risposta anche alle riflessioni del Progetto Pagliaro, laddove si specificava che "la sanzione applicata alla persona giuridica colpisce il medesimo centro d'interessi che ha dato causa alla realizzazione dell'illecito.

Alla personalità dell'illecito corrisponde la personalità della sanzione" .

In definitiva, possiamo affermare che i lavori della Commissione guidata da Grosso si sono posti in un'ottica decisamente più coraggiosa rispetto ai precedenti tentativi di riforma, anche se non si è voluta creare una rottura con la dottrina contraria, evitando di qualificare esplicitamente la responsabilità delle persone giuridiche come penale.

Del resto, indipendentemente dall'etichettatura dell'istituto, ritenuta di secondaria importanza (presa di posizione, questa, che ha aperto la via al cd. tertium genus di responsabilità), il contesto in cui essa risulta collocata non lascia dubbi sulla sua natura.

Nel titolo VII del Progetto e nelle Disposizioni di attuazione e coordinamento, leggiamo, ad esempio:

- alla responsabilità della persona si applicano le disposizioni dell'ordinamento penale, in quanto compatibili (art. 124);

- l'accertamento della responsabilità della persona giuridica e l'applicazione delle relative sanzioni sono di competenza del giudice penale (art. 133);

- si applicano alla persona giuridica chiamata a rispondere ai sensi del titolo VII del codice penale le disposizioni processuali relative all'imputato (art. 18 disp.att.coord.).

Per quanto concerne l'analisi tecnica delle disposizioni del Progetto, si può tranquillamente rinviare all'analisi del d.lg. 231, col quale è quasi completamente compatibile.

E' bene però immediatamente richiamare alcune singolarità del Progetto Grosso: a differenza del codice Rocco, in esso la responsabilità dell'ente non era limitata al reato contravvenzionale, ma generalizzata; per quanto riguarda gli enti responsabili poi, se è vero che, ancora rispetto al codice, la previsione si allargava anche ai soggetti collettivi non riconosciuti, essa andava a colpire solo quelli svolgenti "attività economica".

Quest'ultima specificazione, restrittiva rispetto al dettato della coeva L. 300, in sede di Commissione veniva motivata in virtù dell'urgenza di provvedere, che si era manifestata in origine soprattutto per i crimini prettamente d'impresa, settore verso il quale veniva quindi indirizzato un immediato controllo.

Su altro versante, inoltre, è interessante accennare a quella dottrina convinta dell'anacronismo dell'obliterazione degli Enti territoriali dal novero di quelli perseguibili.

Si ritiene, infatti, che essi siano "fra i maggiori responsabili" soprattutto per quanto riguarda "il danno cagionato alle persone da mancata tutela del territorio"; prospettiva che, aggiungerei, ha acquisito maggior rilevanza in seguito al rafforzamento di decentramento ed autonomia dei suddetti Enti.

Da questo sintetico excursus si ricava l'idea di un quadro normativo scosso nelle fondamenta dalla ormai ineludibile esigenza di adeguamento alle richieste provenienti dalla società.

Probabilmente una risposta il legislatore italiano avrebbe potuto darla prima, poichè il tema della responsabilità penale della persona giuridica non è questione nuova, come si è visto.

Ma poichè, pare, il tempo della riforma è stato appena inaugurato, sarà utile "approfittare" dell'esperienza ormai matura di quei Paesi che già hanno dato la loro soluzione al problema. 

 

(Marta Silano)

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