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Caso Parmalat: due società di revisione indagate




Si è appreso ieri che, nell’ambito del “caso Parmalat”, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano ha iscritto \n Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo. Goffredo Martorello

Si è appreso ieri che, nell’ambito del “caso Parmalat”, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano ha iscritto nel registro delle notizie di reato due note societa' di revisione.

I reati ipotizzati sarebbero quelli di aggiotaggio e false comunicazioni sociali.

L’asserito coinvolgimento delle due societa' fa seguito all’arresto di alcuni manager e revisori delle stesse.

Sulla base delle informazioni a disposizione, si possono svolgere alcune considerazioni,rinviando, oltre che alla segnalazione di ulteriori sviluppi, all’articolo in tre parti sul ruolo e le responsabilità delle società di revisione, in corso di pubblicazione su questa Rivista.

  1. I reati rilevanti nell’ottica del d.lg. 231

Sia le false comunicazioni sociali (1) che l’aggiotaggio (2) possono coinvolgere le società ai sensi dell’art 25 ter d.lg. 231, ove commessi nell’interesse o a vantaggio delle stesse e con il concorso dei criteri di imputazione soggettiva ex artt 6 e 7.

  1. le condizioni di procedibilità

Il falso in bilancio, nel caso di specie, è procedibile d’ufficio.

Si tratta, infatti, dell’ipotesi delittuosa di danno concernente una società quotata (art 2622).

Tale circostanza consente di procedere all’accertamento dell’illecito dell’ente (cfr.art 37 d.lg. 231)

  1. In quale modo – a livello fattuale - i reati ipotizzati possono coinvolgere le società di revisione?

Evidentemente si ipotizza il concorso dei revisori nei reati menzionati, commessi dai vertici della Parmalat: i revisori avrebbero fornito un apporto materiale/psicologico durante la fase di consumazione dei delitti.

Correlativamente, va aggiunto, è configurabile il concorso degli amministratori della società sottoposta a revisione nel delitto di cui all’art 2624 c.c. (Falsità nelle relazione e nelle comunicazioni della società di revisione), nelle ipotesi in cui, ad esempio, i primi istighino i responsabili della revisione a commettere le falsità (3).

La disposizione appena menzionata contempla il fatto criminoso dei “responsabili della revisione”, utilizzando una terminologia atecnica e non del tutto rispettosa del principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale (4).

Va comunque ricordata l’equiparazione dell’amministratore di fatto a quello ufficiale operata dall’art 2639 c.c., ai sensi del quale “al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”.

Infine, ciò che interessa rilevare in questa sede, è che entrambi i commi dell’art 2624 c.c. sono richiamati dall’art 25 ter del d.lg. 231 del 2001 (introdotto dall’art 3 del d.lg. in esame), che prevede la punibilità della società se il reato in questione viene commesso “nell’interesse della società” stessa da amministratori, direttori generali, liquidatori o persone sottoposte alla loro vigilanza.

La sanzione per la società di revisione, in ipotesi condannata, è compresa tra 100 e 130 quote per l’ipotesi contravvenzionale e tra 200 e 400 quote per l’ipotesi delittuosa. Se la società di revisione ha conseguito un profitto di rilevante entità (comunque oggetto di confisca), la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo (art 25 ter comma 3).

4.      Le sanzioni irrogabili alle società

L’art 25 ter prevede le seguenti sanzioni pecuniarie:

-         per le false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori, ex art art 2622 comma 1: da centocinquanta a trecentotrenta quote;

-         per l’aggiotaggio: da duecento a cinquecento quote;

Se, in seguito alla commissione dei reati in questione, la società ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.

Contrariamente ad alcuni frettolosi commenti (cfr. Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2004, 3), non sono ammissibili le sanzioni interdittive.

Infatti, la versione definitiva dell’art 25 ter non ha mantenuto la disposizione secondo cui, nei casi di condanna in relazione a taluno dei delitti nello stesso indicati, “si applicano all’ente le sanzioni interdittive previste dall’art 9 comma 2 del d.lg. 231, per una durata non superiore ad un anno” (schema di decreto approvato l’11 gennaio 2002).

Avrebbe avuto ben altra efficacia deterrente la possibilità di applicare, ad esempio, anche in sede cautelare, l’interdizione dall’esercizio dell’attività.

  1. Come è avvenuta l’iscrizione?

Tecnicamente il d.lg. parla di “annotazione”, a margine dell’iscrizione relativa alla persona fisica nel registro delle notizie di reato ex art 335 c.p.p..

La Procura ha proceduto, “immediatamente” (art 55), all’annotazione, perché ha ritenuto di aver ricevuto notizia dell’illecito dell’ente.

Dall’annotazione decorre il termine per l’accertamento dell’illecito dipendente da reato (art 56).

  1. Quale è l’onus probandi della Procura?

I P.M. dovranno dimostrare che i delitti – ove commessi – siano stati realizzati nell’interesse o a vantaggio della società di revisione.

Se invece i manager indagati hanno commesso i reati nel loro esclusivo interesse (ad esempio, perché adeguatamente remunerati dai vertici della Parmalat), esulerebbe qualsiasi possibilità di coinvolgimento delle società di appartenenza.

In realtà dalle prime applicazioni giurisprudenziali (peraltro concernenti sentenze di patteggiamento ed incidenti cautelari) sembra emergere una – senz’altro criticabile – linea di tendenza: il reato del soggetto apicale impegna automaticamente l’ente.

In altri termini affiora un’interpretazione acritica dell’immedesimazione organica: il reato del soggetto apicale non può non essere commesso nell’interesse dell’ente (analogamente al famigerato assunto del “non poteva non sapere”).

Sicuramente, va ribadito con forza, la legge delega, il d.lg. 231 e, con chiarezza, la relazione di accompagnamento, richiedono un quid pluris.

  1. Quale la linea difensiva delle società?

Per andare esenti da responsabilità, le società dovranno dimostrare – poiché i soggetti coinvolti possono considerarsi “apicali” – di aver adottato ed effettivamente attuato i modelli di organizzazione, gestione e controllo, ex art 6 d.lg. 231.

In particolare dovranno dimostrare che le misure di controllo interne – ove esistenti ed attuate, con specifico riguardo all’Organismo di vigilanza sui modelli – siano state aggirate intenzionalmente dai manager.

Insomma, come spesso si è detto, una probatio diabolica.

Ove ciò non fosse possibile, si dovrà cercare di ottenere il miglior trattamento sanzionatorio possibile, facendo ricorso alle misure riparatorie e preventive pro futuro.

  1. Come si articolerà il rapporto tra le persone fisiche e le società?

Nonostante l’iniziale presa di posizione delle società coinvolte, in difesa dei manager indagati, è verosimile che gli interessi processuali della società e delle persone fisiche coinvolte andranno in direzioni opposte: i manager avranno interesse a sostenere che la condotta criminosa rientrava nell’interesse della società (mantenere “a tutti i costi” un cliente di rilevanti dimensioni) – la società dovrà invece dimostrare che i modelli sono stati elusi fraudolentemente dai manager.

I primi casi giurisprudenziali evidenziano il ricorso al “licenziamento” delle persone fisiche, quale prima misura – successiva al reato - di “resipiscenza” da parte dell’ente.

 

(Maurizio Arena)

 

NOTE

(1) art 2622 c.c. (False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori)

“Gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, esponendo fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni, ovvero omettendo informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, cagionano un danno patrimoniale ai soci o ai creditori sono puniti, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a tre anni. 

Si procede a querela anche se il fatto integra altro delitto, ancorché aggravato a danno del patrimonio di soggetti diversi dai soci e dai creditori, salvo che sia commesso in danno dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee. 

Nel caso di società soggette alle disposizioni della parte IV, titolo III, capo II, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n.  58, la pena per i fatti previsti al primo comma è da uno a quattro anni e il delitto è procedibile d’ufficio.

La punibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi.  La punibilità per i fatti previsti dal primo e terzo comma è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%.

In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta”.

(2) Articolo 2637 (Aggiotaggio)

“Chiunque diffonde notizie false, ovvero pone in essere operazioni simulate o altri artifici concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, quotati o non quotati, ovvero ad incidere in modo significativo sull’affidamento che il pubblico ripone nella stabilità patrimoniale di banche o di gruppi bancari, è punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni”.

(3) art 2624 c.c.

“1. I responsabili della revisione i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nelle relazioni o in altre comunicazioni, con la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni, attestano il falso od occultano informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto alla revisione, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta situazione, sono puniti, se la condotta non ha loro cagionato un danno patrimoniale, con l’arresto fino ad un anno.

2. Se la condotta di cui al primo comma ha cagionato un danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni, la pena è della reclusione da uno a quattro anni.

Giace in Parlamento il disegno di legge A.S. 2234, che modifica nei seguenti termini l’art 2624:

“I responsabili della revisione delle società quotate nei mercati regolamentari, delle società emittenti titoli destinati alla quotazione sui mercati stessi e delle società che amministrano o gestiscono in qualsiasi forma tecnica il risparmio del pubblico i quali, nelle relazioni o in altre comunicazioni, per colpa, da valutarsi secondo la diligenza professionale richiesta per l’esercizio della professione di revisore contabile, attestano fatti non corrispondenti al vero ovvero occultano informazioni che incidono sulla corretta rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto a revisione, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta situazione, sono puniti, se la condotta non ha loro cagionato un danno patrimoniale, con l’arresto fino a sei mesi.

Se la condotta di cui al primo comma ha cagionato un danno ai destinatari delle comunicazioni, la pena è dell’arresto non inferiore a sei mesi e fino ad un massimo di un anno.
Se la condotta, pur prescindendo dal danno patrimoniale arrecato, è stata posta in essere con la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni, la pena prevista è da uno a quattro anni di reclusione.
Se oltre al dolo la condotta è stata finalizzata al conseguimento per o per altri di ingiusto profitto, ovvero ha cagionato danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni, la pena prevista dal terzo comma è aumentata fino al doppio.
Se dalla condotta di cui al quarto comma è derivato anche un effetto depressivo sui mercati finanziari, la pena stessa è aumentata fino al triplo”.

(4) Sotto questo profilo era maggiormente condivisibile l’abrogata fattispecie di cui all’art 175 T.U. 58/1998, che contemplava, quali soggetti attivi, gli amministratori e i soci responsabili.

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