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Corte di Cassazione sulle ditte individuali




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Corte di Cassazione, sezione VI penale, 3 marzo/22 aprile 2004, n. 18941/04

Omissis

FATTO

Con ordinanza in data 11 luglio 2003, il Tribunale di Roma, adito ex art. 310 c.p.p., ha rigettato l'appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma avverso il provvedimento con quale il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Roma aveva respinto in data 30-5-2003 la richiesta avanzata dal Pubblico Ministero di applicazione alla ditta individuale S. R. della misura cautelare dell’interdizione dall'esercizio dell’attività per la durata di un anno, prevista dall'art. 25 del d. lg. 231 dell’8 giugno  200l      .

Con tale provvedimento il Tribunale di Roma ha ritenuto che l’ambito soggettivo di applicazione della recente normativa sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di responsabilità giuridica non potesse essere esteso alle imprese individuali.

Avverso questa ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, chiedendone l'annullamento per errata interpretazione del decreto legislativo n. 231 del 2001.  

Il ricorrente premette che il Tribunale del Riesame e prima ancora il GIP hanno ritenuto che il decreto in questione non fosse applicabile alle ditte individuali in quanto il dato testuale dell’art. 1 non prevede tali soggetti tra i destinatari della normativa.

Il Procuratore della Repubblica di Roma rileva, invece, che, stando alla lettera della legge, un’espressa esclusione riguarda soltanto lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (art 1 comma 3), e osserva che, allo scopo di non vanificare l'incidenza della normativa il legislatore ha ritenuto di estendere la responsabilità anche a soggetti sprovvisti di personalità giuridica, a quei soggetti, cioè, che (potendo più agevolmente sottrarsi ai controlli pubblici) risultano nel contempo "a maggior rischio" di attività illecite.

Sotto il profilo soggettivo, in definitiva, la normativa in esame conosce un notevole ambito di applicazione, potendo il giudice applicare sanzioni nei confronti di società di capitali, società cooperative, fondazioni, enti privati e pubblici economici. società di persone, consorzi e associazioni non riconosciute, con le uniche eccezioni sopra menzionate, previste dal menzionato comma 3 dell'art 1.

Non essendo contenuto nel decreto legislativo alcun accenno alle imprese individuali, il ricorrente è dell'avviso che "una interpretazione sistematica e razionale" del decreto medesimo induca a ritenere che il legislatore abbia inteso ricomprendere  nell'ambito di applicazione delle nuova disciplina proprio quei soggetti economici che,                dotati di strutture più "agili" e privi di qualsiasi forma di controllo, costituiscono con           tutta evidenza un terreno fertile per il compimento di attività illecite.

Anche una interpretazione costituzionalmente orientata condurrebbe, secondo il Procuratore della Repubblica di Roma, alle medesime conclusioni.

L'esclusione delle ditte individuali dall'ambito di applicazione della normativa in esame contribuirebbe, infatti, a realizzare una disparità di trattamento tra coloro che decidono di utilizzare forme semplici ed agili di impresa e coloro che, al contrario, stipulano un contratto di società con altre persone per conferire beni o servizi per l'esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili (art. 2047 c.c.).

Infine il ricorrente sottolinea che la nuova normativa è applicabile anche alle società a responsabilità limitata unipersonali ed evidenzia, da un lato, che la possibilità per l'imprenditore indagato di cambiare veste giuridica all'impresa determinerebbe la facile elusione della disciplina dettata dal decreto legislativo n. 231 del 200l, e, dall'altro, che anche le ditte individuali spesso hanno una organizzazione interna piuttosto complessa, che prescinde nel suo funzionamento da un sistematico intervento del titolare della ditta per la risoluzione di ogni questione, sicché sarebbero evidenti i rischi di comportamenti "devianti" da parte dei dipendenti della ditta stessa.

DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Il decreto legislativo 8 giugno 200 1 n. 231 - che ha come rubrica: "Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'art. 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300" - costituisce l'esercizio della delega contenuta in quest'ultima legge, che aveva disposto la ratifica sia della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri, sia di varie convenzioni dell'Unione Europea in tema di protezione degli interessi finanziari delle Comunità Europee e di lotta alla corruzione.

La Convenzione OCSE (17 dicembre 1997) prevede che "ciascuna parte prende le misure necessarie, in conformità dei propri principi giuridici, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche nel caso di corruzione di un pubblico funzionario straniero", mentre, assai più specificamente, gli artt. 3 e 4 del Secondo Protocollo sulla protezione degli interessi finanziari delle Comunità Europee (27 giugno 1997) si occupano della responsabilità e delle sanzioni delle persone giuridiche.

Queste convenzioni sono state approvate quando negli altri Stati e nelle sedi internazionali il principio della responsabilità degli enti si era oramai affermato e costituiscono la matrice delle scelte operate dal legislatore italiano con la legge n. 300 del 2000.

In particolare, il legislatore italiano, dovendo stabilire quali dovessero essere gli enti destinatari della nuova disciplina (solo quelli con personalità giuridica o anche altri; solo quelli privati o anche quelli pubblici), ha delegato il Governo ad emanare "un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale", ivi compresi gli enti pubblici, "eccettuati lo Stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblici poteri" (art 11, commi l e 2, della legge n. 300 del 2000).

Conseguentemente l'art. l del decreto legislativo n. 23l del 2001 - dopo avere significativamente fissato il proprio ambito oggettivo di disciplina nella “responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato" (comma 1) - ha stabilito i confini soggettivi di applicazione della normativa in esso prevista, prevedendo che essa riguarda “gli enti forniti di personalità giuridica" e "le società e associazioni anche prive di personalità giuridica" (comma 2) e che restano fuori dalla sua sfera di applicazione lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (comma 3).

I successivi artt 5-8 del decreto legislativo n. 23l del 2000 dettano le regole sulla "responsabilità dell'ente" e fissano i criteri di imputazione all'ente dei reati commessi dai soggetti "di vertice" e dai dipendenti.

Dal conciso excursus normativo contenuto nel punto che precede emerge con chiarezza che il decreto legislativo n. 231 del 200l, superando il principio societas delinquere non potest, ha introdotto nell'ordinamento giuridico italiano un sistema di responsabilità di enti collettivi conseguente a reato, espressamente definita amministrativa.

Quale che sia la natura giuridica di questa responsabilità "da reato", è certo che in tutta la normativa (convenzioni internazionali; legge di delegazione; decreto delegato) e, segnatamente, nell'art 1, comma l, del decreto legislativo n. 231 del 2001 essa è riferita unicamente agli “enti", termine che evoca l'intero spettro dei soggetti di diritto metaindividuali, tanto che, come si è visto, i successivi commi della disposizione da ultimo menzionata ne specificano l'ambito soggettivo di applicazione.

D'altra parte sulla riferibilità della nuova disciplina esclusivamente agli enti collettivi è oltremodo chiara la relazione governativa sul decreto legislativo n. 231 del 2001, nella quale si puntualizza che l'introduzione di forme di responsabilità degli enti collettivi è stata dettata da ragioni di politica criminale, che consistevano, da un lato, in esigenze di omogeneità delle risposte sanzionatorie degli Stati, e, dall'altro, nella consapevolezza di "pericolose manifestazioni di reato poste in essere da soggetti a struttura organizzata e complessa".

In particolare, richiamando testualmente un passo della relazione della commissione Grosso sul progetto preliminare di riforma del codice penale, la relazione al decreto legislativo n. 231 prende in considerazione l’ente collettivo "quale autonomo centro di interessi e di rapporti giuridici, punto di riferimento di precetti di varia natura, e matrice di decisioni ed attività dei soggetti che operano in nome, per conto o comunque nell'interesse dell'ente".

Infine la responsabilità dell’ente è chiaramente aggiuntiva, e non sostitutiva, di quella di persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune.

Quanto poi alla tematica delle vicende modificative che possono interessare i soggetti di diritto metaindividuali (e cioè le operazioni di riorganizzazione dell'ente o delle sue risorse capaci di incidere in vario modo sulla sua identità, potendone derivare ora una più o meno radicale "trasfigurazione", ora addirittura la "scomparsa" dell'ente stesso quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, con correlata traslazione dell'universo dei suoi rapporti in capo ad uno o più differenti organismi), le apposite previsioni di cui agli artt. 28 e ss. del decreto legislativo n. 231 puntano proprio ad evitare che tali vicende (che, generalmente, dipendono da libere iniziative degli interessati) si traducano in strumenti di elusione dei meccanismi sanzionatori di nuovo conio.­

Per le argomentazioni svolte deve concludersi che correttamente il Tribunale di Roma ha escluso che l'ambito soggettivo di applicazione della recente normativa sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e della associazioni anche prive di responsabilità giuridica potesse essere esteso alle "imprese individuali".

Deve solo aggiungersi che la situazioni poste a raffronto dal ricorrente ("imprese individuali" ed enti collettivi) presentano spiccati caratteri di diversità, sicché non è neppure ipotizzabile una disparità di trattamento con violazione dell'art. 3 Cost.

In ogni caso il divieto di analogia in malam partem impedisce una lettura della normativa in esame che, come prospettato dal Procuratore della Repubblica di Roma, ne estenda le previsioni anche alle “ditte individuali”: si tratterebbe, infatti, di una interpretazione evidentemente contraria all'art 25, secondo comma, della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

Rigetta il ricorso.

Così deciso in data 3 marzo 2004

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