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Tribunale di Milano, Sezione XI
riesame - Ordinanza 20 dicembre 2004
(omissis)
Questo
Collegio ritiene che l'appello sia fondato nei limiti di seguito precisati.
Questo
Collegio deve, in primo luogo, osservare come l'art. 45 d.lg.
n. 231/2001 preveda la possibilità di applicare,
quale misura cautelare, una delle sanzioni interdittive
previste dall'art. 9, comma 2, della stessa legge, e cioè l'interdizione
dall'esercizio dell'attività, la sospensione o la revoca di autorizzazioni,
licenze o concessioni, il divieto di contrattare con la P.A.,
l'esclusione o la revoca da agevolazioni o il divieto di pubblicizzare beni o
servizi.
Lo
stesso art. 45, comma 3, d.lg. cit., prevede poi che «in luogo della misura interdittiva, il giudice può nominare un commissario
giudiziale a norma dell' art. 15 per un periodo pari alla durata della misura
che sarebbe stata applicata».
Le disposte nomina di un commissario e prosecuzione
dell'attività della società da parte del commissario medesimo, non
costituiscono quindi una misura cautelare autonoma, ma una misura sostitutiva
di quella interdittiva, con la conseguenza che per la
sua applicazione deve essere integrata una fattispecie complessa costituita da
tutti gli elementi necessari per l'applicazione della misura cautelare interdittiva (previsti dall'art. 45, comma 1) e da quelli
aggiuntivi e speciali, necessari per la nomina del commissario.
Questi
ultimi sono previsti dall'art. 15, comma 1, e sono rappresentati, in via
alternativa, dallo svolgimento di un servizio
pubblico o di pubblica necessità la cui interruzione possa provocare un grave
pregiudizio alla collettività, ovvero dalla sussistenza di rilevanti ripercussioni
sull'occupazione derivanti dall'interruzione dell'attività medesima.
Del
tutto corretto è quindi il percorso logico seguito dal giudice, che ha in
primo luogo ritenuto sussistenti i presupposti per l'applicazione della misura
cautelare dell'interdizione dall'esercizio dell'attività e poi, ritenendo
sussistenti anche i presupposti di cui all'art. 15, ha nominato il commissario
e disposta la prosecuzione dell'attività a mezzo del
commissario medesimo.
È
ovvio che, sulla sussistenza dei presupposti previsti dall'art. 15 per la
nomina del commissario, la società non ha interesse all'impugnazione (e del resto
non ha neppure devoluto censure su tali punti della decisione nel presente
appello), in quanto si tratta di presupposti
giustificanti un trattamento più favorevole rispetto a quello derivante dalla
loro assenza. L'assenza di tali ultimi presupposti comporterebbe infatti la mera applicazione dell'interdizione dall'esercizio
dell'attività.
Peraltro
è altrettanto evidente che la contestazione dei requisiti per l'interdizione
dall'esercizio dell'attività faccia venir meno anche la misura sostituita
(nomina del commissario giudiziale), posto che quest'ultima
misura presuppone la sussistenza di tatti gli elementi costitutivi della prima.
Pertanto
occorre in primo luogo verificare se sussistano o meno
i presupposti di applicazione della misura cautelare dell'interdizione
dall'attività.
Orbene,
ai fini dell'applicazione della misura cautelare dell'interdizione l'art. 45,
comma 1, pone due requisiti:
- gravi indizi per ritenere sussistente la responsabilità dell'ente
per un illecito amministrativo dipendente da reato;
-
fondati e specifici elementi per ritenere il pericolo che vengano
commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede.
La
nozione di gravità indiziaria non presenta elementi specializzanti contenuti
nella legge in esame, di tal ché tale nozione può
essere mutuata dal sistema processuale e, quindi, dall'art. 273 c.p.p., nell'interpretazione
ormai consolidata che ne dà la Cassazione: la gravità degli indizi consiste
nella qualificata (elevata) probabilità di attribuzione dell'illecito
sulla base degli elementi acquisiti e sulla base dello sviluppo prevedibile
delle indagini, nel senso che deve ritenersi qualificata la probabilità quando
gli atti di indagine possono tradursi in elementi utilizzabili dal giudice nel
futuro giudizio di responsabilità e fondare il medesimo.
Nel
caso in esame, peraltro, a differenza di quanto accade nell'art. 273 c.p.p., i gravi indizi non riguardano
un delitto, ma quello che il legislatore ha definito un «illecito
amministrativo dipendente da reato». Ciò vuol dire che il giudizio di
qualificata probabilità deve concernere tutti gli elementi costitutivi
di detta particolare fattispecie di illecito.
La
fattispecie costitutiva dell' «illecito amministrativo
dipendente da reato» si ricava da diverse disposizioni della legge speciale la
quale, per affermare la responsabilità dell'ente, richiede la positiva
presenza di:
- la commissione da parte di una persona fisica di un determinato reato,
consumato o tentato, il cui titolo sia ritenuto espressamente e
tassativamente dalla legge idoneo a fondare la responsabilità dell'ente (art. 25 ss.);
- la
sussistenza di un rapporto qualificato dell'autore del reato con l'ente,
consistente in:
a. una posizione apicale del soggetto nella società quale definita dall'art. 5, lett..a) (rappresentanza, amministrazione, direzione ovvero gestione o controllo di fatto);
b. o, in alternativa, un rapporto di
sottoposizione del soggetto a persone in posizione apicale (art. 5, lett. b));
- interesse o vantaggio dell'ente (art. 5, comma 1, prima parte e
comma 2).
La
legge prevede poi degli elementi negativi della fattispecie, cioè
che non devono sussistere perché si possa affermare la responsabilità dell'ente
medesimo:
- carattere non territoriale, non pubblico o non di rilievo costituzionale dell'ente (art. 1, comma 3);
-
estinzione per amnistia del
reato da cui dipende l'illecito e l'assenza di rinuncia all'amnistia da parte
dell'ente (art. 8).
Accanto
ad elementi positivi e negativi della fattispecie il
legislatore ha altresì previsto elementi impeditivi della responsabilità dell'
ente, costituiti dall'adozione ante factum di
un modello di organizzazione (rispondente alle caratteristiche delineate dal
legislatore) idoneamente attuato per prevenire reati della stessa specie di
quello verificatosi, con le condizioni aggiuntive, in caso di reato commesso da
soggetto in posizione apicale, dell'affidamento dei poteri di iniziativa e
controllo a un organo dell'ente dotato di autonomi poteri, della commissione
del reato con elusione fraudolenta da parte
dell'autore dei modelli nonché della sufficiente vigilanza da parte dell'organo
di controllo (artt. 6 e 7).
Il giudizio di gravità indiziaria nel caso di specie, dovrà quindi riguardare gli elementi sopra indicati.
Per
quanto riguardo la commissione di un reato ritenuto
dal legislatore idoneo a fondare la responsabilità dell'ente, una volta
verificato che si tratta di corruzione aggravata e che il delitto è
espressamente previsto dal legislatore all'art. 25 della legge fra quelli il
cui titolo è idoneo a fondare la responsabi1ità dell'ente, il giudizio di
gravità indiziaria relativo a detto elemento si sovrappone in toto a quello espresso in sede di riesame avverso il
provvedimento coercitivo emesso nei confronti del soggetto-persona
fisica, dovendosi in entrambe le sedi (quella ex art. 309 e quella ex
art. 52, comma 1, d.lgs. n. 231/2001, artt. 322-bis e 310 c.p.p.)
valutare se sussista una elevata probabilità di
attribuzione del delitto alla persona fisica.
(omissis)
Analoghe considerazioni devono essere svolte in ordine ai requisiti negativi della fattispecie relativi al carattere non pubblico, non territoriale e non di rilievo costituzionale degli enti esame, in quanto società commerciali dotate di personalità giuridica.
Allo
stesso modo, deve concludersi in relazione all’insussistenza di cause di estinzione del reato rilevanti
ai fini che ci occupano.
Per
quanto concerne i modelli organizzativi, risulta pacifico, perché dedotto
dalla stessa difesa dell'ente, che gli stessi sono stati adottati soltanto post factum, con la
conseguenza che ai modelli medesimi non può riconoscersi alcun rilievo impeditivo della responsabilità dell'ente, giacché tale
effetto è riconosciuto dal legislatore soltanto ai modelli efficacemente
adottati ante factum ai sensi del citato art. 6 e sempre che ricorrano
le ulteriori condizioni già sopra ricordate.
Aspetti
di maggiore delicatezza riveste invece l'altro
elemento costitutivo positivo della fattispecie di «illecito amministrativo»
dipendente da reato, quello rappresentato dalla circostanza che il reato debba
essere stato commesso a interesse o vantaggio dell'ente.
A
questo proposito deve immediatamente rilevarsi come, dalla lettura sistematica
delle norme della legge in esame, si evinca che, nella
locuzione «nel suo interesse o a suo vantaggio», la congiunzione «o» debba
essere letta in modo disgiuntivo, nel senso che, purché il reato sia compiuto
nell'interesse dell'ente, non occorre anche che questi ne tragga vantaggio.
Ciò si
desume dall'art. 12,comma 1, lett. a) del medesimo
decreto, ove si prevede che la sanzione è ridotta (ciò che implica quindi la
sussistenza della responsabilità, posto che la sanzione viene comunque
inflitta seppure in misura gradata) «se l'autore del
reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente
non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo».
La
disposizione da ultimo citata, quindi, prevede espressamente che l'atto possa
essere compiuto nell'interesse
dell'ente e che l'ente non solo ne ricavi un vantaggio minimo ma anche che non
consegua alcun vantaggio.
Se si
vuole evitare una insanabile contraddizione nella
ricordata locuzione dell'art.12, comma 1 lett. a) -
come deve farsi in forza del criterio ermeneutico
dell'interpretazione utile, secondo cui un enunciato normativo va interpretato
nel senso in cui abbia un significato piuttosto che in quello in cui non ne
abbia nessuno - deve ritenersi che i sintagmi «interesse» e «vantaggio» non
siano usati come sinonimi e che il secondo termine faccia riferimento alla
concreta acquisizione di un'utilità economica, mentre l' «interesse» implica
solo la finalizzazione del reato a quella utilità, senza peraltro richiedere
che questa venga effettivamente conseguita: se l'utilità economica non si
consegue o si consegue solo in minima parte, sussisterà un'attenuante e la
sanzione nei confronti dell'ente potrà essere ridotta.
Risulta pertanto superato l'argomento difensivo secondo cui
non potrebbe ravvisarsi il requisito dell'art. 5, comma
1, prima parte, d.lg. cit. nei confronti della
società controllante, in dipendenza del reato di corruzione aggravata, commesso
da soggetto in posizione apicale in quest'ultima,
con il quale si sia fatto conseguire un appalto a società controllate. È pur
vero, infatti, che in simile ipotesi l'utilità per la controllante è connessa,
come ha sostenuto il difensore, alla ripartizione (futura e incerta) di utili (ove conseguiti) dalle controllate, ma tale
circostanza non esclude certo il presupposto dell'interesse per l'ente.
Infatti,
la distribuzione degli utili afferisce al concetto di «vantaggio» per la controllata, requisito
che, come visto, può anche mancare senza per questo far venir meno la
responsabilità dell'ente per l'illecito amministrativo dipendente da reato, mentre
ciò che rileva ai fini della responsabilità è solo che l'atto sia stato
«finalizzato» al conseguimento di un'utilità per la controllante, in tal modo
dovendosi interpretare la locuzione nell' «interesse» dell'ente.
Lo stesso art. 12, comma 1, lett. a) cit., precisa poi come la responsabilità dell' ente permanga (anche se diminuita) quando l'atto è finalizzato a far conseguire un'utilità anche alla persona fisica o a terzi.
Ciò si
desume dalla ricordata previsione dell'attenuante nel
caso in cui il reato sia commesso nel «prevalente» interesse proprio o di
terzi. Tale locuzione conferma infatti che il reato
non debba neppure avere come scopo principale l'utilità dell'ente, purché
l'utilità a cui è finalizzato l'atto (conseguita oppure no) non sia esclusiva
della persona fisica o di un terzo.
Il
limite negativo oltre il quale non si può andare perché possa continuare a
parlarsi di interesse dell'ente
è invero fissato dall'art. 5, comma 2, che prevede come l'ente non risponda
solo se chi ha commesso il reato abbia agito nell'interesse «esclusivo» proprio
o di terzi.
Dalla
lettura complessiva delle norme sopra indicate si ricava quindi che, ai fini
della responsabilità dell'ente, il reato possa essere destinato a soddisfare
contestualmente l'interesse di diversi soggetti (siano essi persone fisiche o
altri enti), purché tra questi soggetti vi sia anche l'ente nel quale chi ha
commesso il reato riveste una posizione apicale rilevante ai sensi della
normativa indicata, nella specie quella di soggetto che svolge funzioni di amministratore.
Orbene,
l'attivazione di Z. e di T. per il pagamento della
tangente - cioè l'attivarsi di soggetti che non
facevano parte in alcun modo delle società controllate e che non avevano alcun
ruolo nelle medesime ma solo nella società controllante o in altre società del
gruppo - non può che trovare giustificazione nella finalizzazione dell'atto
all'interesse dell'intero gruppo di società e, quindi, all'interesse di più società,
non solo di quelle che direttamente hanno ottenuto l'aggiudicazione degli
appalti ma anche delle controllanti nella prospettiva della partecipazione
agli utili.
L'interesse
di gruppo si caratterizza infatti proprio per questo,
per non essere proprio ed esclusivo di uno dei membri del gruppo, ma comune a
tutti i soggetti che ne fanno parte.
Né è
fondato il timore, espresso dalla difesa, che in tal modo si finirebbe per
estendere al di là del ragionevole la responsabilità
degli enti laddove gli stessi costituiscano un gruppo (finendo per coinvolgere
ed esporre a gravissime sanzioni le capogruppo per reati che hanno
avvantaggiato solo alcune delle controllate): infatti limite e misura del coinvolgimento
della controllante è il criterio di imputazione del reato commesso dalla
persona fisica, che implica la sussistenza di un rapporto qualificato tra
l'agente e l'ente, nella specie la posizione apicale di amministratore della
controllante da parte di chi ha commesso il reato da cui dipende l'«illecito amministrativo»
.
In
altre parole la responsabilità da illecito amministrativo dipendente da reato
può colpire la capogruppo non in modo indiscriminato o irragionevole ma solo
quando sussista nei suoi confronti il criterio di imputazione
dell'atto all'ente, cioè l'appartenenza qualificata all'ente della persona
fisica che commesso il reato, ciò che garantisce dal rischio di arbitraria e
ingiustificata estensione della responsabilità.
In modo estremamente perspicuo e
convincente il giudice di primo grado ha poi ricordato che la nozione di
interesse del gruppo non è ormai una nozione di
mero fatto ma accolta dal codice civile in alcune norme, tra le quali quelle
di cui all'art. 2497 ter e art. 2947 c.c., a conferma del rilievo giuridico di tale tipo di interesse
e della necessità e possibilità di prenderlo in considerazione allorché le
norme facciano riferimento alla nozione di interesse come nel caso dell'art. 5,
d.lg. n. 231/2001.
Ciò
costituisce definitivo riconoscimento giuridico degli orientamenti giurisprudenziali,
pure ricordati dal GIP, secondo cui non possono essere considerati atti di
liberalità, da sottoporre alla relativa tassazione ovvero alla revoca
fallimentare ex art. 64 L.F, quegli atti
(quali la remissione di debito, la cessione gratuita di crediti o la
fideiussione) che, se compiuti nei confronti di un terzo, costituirebbero
certamente liberalità, ma che, se compiuti dalla controllante a favore della
controllata o comunque infragruppo,
corrispondono a un interesse patrimoniale del disponente,
di cui è titolare come parte del medesimo gruppo del beneficiario, così da far
venir meno il carattere di mero atto liberale, proprio in forza del
riconoscimento della valenza giuridica di un simile interesse, l' «interesse
di gruppo» appunto.
Come
bene osserva il GIP, la stessa presunzione di cui all'art. 2424-bis, comma
2, c.c., secondo cui ai fini
della contabilizzazione le partecipazioni in società
controllate si intendono come immobilizzazioni è non come attivo circolante,
costituisce conferma di come il legislatore riconosca rilevanza alla
stabilità del rapporto tra le società legate dall'interesse di gruppo, tanto
che, in assenza di prova contraria, la partecipazione nell'altra società non viene
ritenuta occasionale e precaria, quale un mero acquisto di partecipazioni per
la successiva rivendita, ma duratura e stabile e quindi una immobilizzazione.
L'esistenza
di tale rapporto qualificato tra controllante e controllata impedisce pertanto
di considerare quest'ultima un «terzo» ed impedisce
che gli utili che essa consegua, in conseguenza
dell'attività della controllante, possano definirsi conseguiti da un terzo,
quantomeno impedisce di ritenere che l'attività della controllante possa dirsi
compiuta nell' esclusivo interesse del terzo, in considerazione degli
inevitabili riflessi che le condizioni della controllata riverberano sulla
controllante.
Sulla
scorta di tali considerazioni deve pertanto ritenersi che anche l'ultimo
requisito preso in considerazione per la sussistenza dell'illecito amministrativo
dipendente da reato, quello di cui all'art. 5, comma 1, prima parte e comma 2, sia
stato soddisfatto.
Conseguentemente deve ritenersi che il requisito di gravità indiziaria ai sensi dell'art. 45, d.lg. n. 231/2001 sia stato pienamente integrato nella specie.
Passando
all'esame del presupposto del periculum già
si è visto come, ai fini
della misura cautelare interdittiva, l'unica
esigenza cautelare rilevante sia costituita dal
pericolo di commissione di «illeciti della stessa indole di quello per cui si
procede».
Poiché
l'illecito di cui si occupa la normativa e quello dalla stessa definito
«illecito amministrativo dipendente da reato», la locuzione normativa non può intendersi come mera indicazione del pericolo di
reiterazione di analoghi «reati», quasi che la
formula fosse meramente ripetitiva di quella dell'art. 274, lett
c), c.p.p., ma deve intendersi invece come pericolo che persone fisiche in
posizione apicale in un ente (ovvero dipendenti e controllate da persone in
posizione apicale) possano commettere,. nell'interesse
o a vantaggio dell'ente, nuovi reati da cui dipende la responsabilità
dell'ente medesimo, reati della stessa indole di quello per cui si procede.
Un
pericolo di tal fatta dipende sostanzialmente da due parametri: le persone
fisiche che agiscono nell'ente in una posizione
qualificata ex art. 5 (posizione apicale o sottoposizione alla direzione e
vigilanza di soggetto in posizione apicale); la struttura organizzativa
dell'ente medesimo che, per come è concretamente
realizzata, consenta operazioni utili o necessarie alla commissione dei reati
(quali ad esempio l'accantonamento di fondi extracontabili). Ciascuno di tali
parametri può risultare autonomamente significativo
del periculum, né la norma di cui
all'art. 45 stabilisce (come nel caso dell'art. 274 c.p.p.)
la considerazione di specifici elementi espressamente indicati, quali la
personalità dell'indagato ovvero le circostanze o le modalità del fatto, che
il giudice debba necessariamente prendere in considerazione al fine del
giudizio di pericolosità, limitandosi a stabilire i caratteri che devono possedere
gli elementi da porre a base della valutazione, i quali devono essere «fondati
e specifici», ma senza precisare in che cosa essi debbano consistere, e
precisando che il pericolo deve fare riferimento a illeciti della stessa
«indole».
Il
contenuto degli aggettivi (fondato e specifico) può meglio essere compreso
dalla considerazione della coppia di opposti cui
appartengono (fondato - infondato, specifico - generico).
La seconda opposizione chiarisce quindi che gli elementi debbano essere individuati singolarmente nella loro consistenza storica e fattuale, senza possibilità di riferimenti generici a dati valutativi o astratti, come sarebbe ad esempio la mera indicazione di «disordine organizzativo», «opacità delle operazioni finanziarie», dovendosi specificare quali settori siano disordinati, in che cosa consista il disordine, quali siano le operazioni finanziarie e in cosa consista la loro opacità.
Parimenti
deve rifuggirsi la genericità nella forma del riferimento a fatti che, pur
precisamente individuati nella loro consistenza storica, non siano
però direttamente riconducibili all'ente ovvero alla reiterazione di reati analoghi
a quello per cui si procede.
La
prima opposizione chiarisce invece come
si debba trattare di elementi effettivamente
sussistenti e non di fatti in
ordine ai quali sussistano dubbi sui loro verificarsi, non potendosi sviluppare alcuna fondata conclusione partendo da
premesse incerte. Parimenti la fondatezza deve essere valutata in riferimento
alla possibilità che un determinato fatto-premessa possa
«fondare» un'inferenza per giungere al fatto-conclusione (il pericolo).
Sulla
scorta delle precedenti considerazioni deve quindi ritenersi che il periculum di cui all'art. 45 possa essere tratto sia da elementi attinenti le persone
fisiche che operano nell'ente in posizione qualificata (parametro soggettivo),
sia da elementi che ineriscono oggettivamente la
concreta organizzazione dell'ente (parametro oggettivo): per quanto concerne
il parametro soggettivo i contenuti su cui basare il giudizio di pericolosità
saranno quelli soliti già elaborati anche in via giurisprudenziale per
desumere la pericolosità della persona fisica; per quanto concerne il parametro
oggettivo, i contenuti dovranno desumersi dai criteri elaborati dalla scienza
economica in materia di organizzazione aziendale.
Quest'ultimo riferimento non deve portare a ritenere che le valutazioni in proposito siano rimesse al mero arbitrio del giudice, posto che anche
in altri ambiti non sussiste
una precisa e specifica predeterminazione dei criteri e degli elementi da
utilizzare nella valutazione (dovendosi di volta in volta fare riferimento
allo stato dell'arte nei singoli settori in cui si sia verificata la condotta,
si pensi ad esempio alla colpa medica negli omicidi colposi) senza che ciò
abbia mai sollevato dubbi in ordine alla predeterminazione della fattispecie e
all'esistenza di mere valutazioni discrezionali del giudice, come tali pienamente controllabili e
quindi per niente arbitrarie.
L'unica
difficoltà nel campo che ci occupa è data dal fatto che criteri meramente aziendalistici di «efficienza» o «economicità»
dell'organizzazione sovente non sono
necessariamente funzionali alla prevenzione della commissione di reati
nell'ambito dell'ente o, comunque,
non sono sufficienti per valutare il grado di tale rischio, quale implicato
dalla struttura amministrativa e organizzativa concretamente in essere
nell'ente.
Peraltro
proprio con il d.lg. n. 231/2001, attraverso
l'introduzione delle norme sui modelli di organizzazione (in cui si è fatto
tesoro delle esperienze accumulatesi nello specifico campo della criminalità
societaria in paesi stranieri dove il fenomeno aveva assunto rilievo sin
dall'inizio del secolo), si è tracciato il quadro dei contenuti di una «buona»
organizzazione aziendale, cioè dei contenuti che la
stessa deve avere per non potersi considerare pericolosa, secondo regole di
esperienza in tal modo codificate.
Su
questo punto occorre peraltro fare chiarezza: infatti la legge prevede
espressamente modelli di organizzazione (con determinati contenuti indicati
dal legislatore) solo in due casi: i modelli adottati ante factum che,
come già ricordato, a determinate ulteriori condizioni
costituiscono elementi impeditivi della responsabilità dell'ente per
l'illecito amministrativo dipendente da reato (art. 6); i modelli adottati post factum che, ai
sensi dell'art. 12, comma 2, lett b), costituiscono
un'attenuante della responsabilità, portando all'applicazione di sanzioni
diminuite.
Peraltro,
posto che il modello organizzativo viene previsto e
disciplinato dal legislatore al fine di garantire una struttura amministrativa
all'ente tale da prevenire il rischio di commissione di illeciti amministrativi
dipendenti da reato, è chiaro che le indicazioni contenute a tal fine
nell'art. 6, comma 2, lett a), b), c), d) ed
e) costituiscano parametri la cui presenza attenua la pericolosità sino ad
escluderla del tutto ove il modello presenti tutte le caratteristiche sopra
indicate e le stesse siano attuate in modo idoneo.
Ciò non
implica che da una valutazione congiunta di tutti i parametri sopra indicati
(persone fisiche operanti in posizione qualificata nell'ente, struttura
organizzativa e adozione di uno o più degli accorgimenti previsti per i
modelli di organizzazione) gli stessi possano
escludere in concreto la pericolosità anche laddove l'attuazione del modello
sia parziale ovvero non rispetti tutti i presupposti richiesti dal legislatore
ai fini dell'effetto impeditivo della responsabilità
o ai fini dell'effetto attenuante della medesima.
La
reciproca influenza del parametro soggettivo e di quello oggettivo
(struttura amministrativa dell'ente) è infatti
evidente, risultando chiaro che modificazioni nelle persone fisiche in
posizione qualificata nell'ente e, l'adozione di opportune garanzie in ordine
alla loro stabilità, possono considerarsi sufficienti a garantire dal pericolo,
fermo restando che l'adozione di un modello organizzativo idoneo esclude
obiettivamente la pericolosità dell'ente.
Dovendo
essere quelli sopra indicati gli elementi su cui basare la valutazione di
pericolosità, gli stessi devono poi presentare le già ricordate caratteristiche
della fondatezza e della specificità.
Orbene,
ciò premesso sui criteri legislativi della valutazione
di pericolosità, questo Collegio non ritiene che gli elementi indicati in
ordinanza a fondamento del periculum corrispondano
ai detti requisiti e ritiene viceversa che sussistano elementi per ritenere
insussistente allo stato il medesimo periculum.
(omissis)
A ciò
si aggiunga che, per l'applicazione della misura cautelare dell'interdizione
devono altresì sussistere ulteriori requisiti,
ricavabili dai principi di proporzione e adeguatezza di cui all'art. 46, d.lg. cit., requisiti
che il Tribunale ritiene nella specie non sufficientemente dimostrati.
Ciò
comporta che, quand'anche in via di mera ipotesi e per completezza di argomentazione, si volesse ritenere sussistente il
requisito del periculum, ciò non di meno
la sanzione interdittiva non potrebbe applicarsi
nella specie.
Proprio
a questo riguardo occorre premettere che, stante la natura di capogruppo (o comunque di holding della società in esame), risulta
impossibile limitare l'interdizione a specifici settori. Ciò peraltro non
implica, come sembra arguire la difesa, l'impossibilità di applicare misure
cautelari interdittive alle capogruppo o agli enti di
mera partecipazione, bensì solo la possibilità di applicare nei confronti di
detti soggetti giuridici la sola misura cautelare interdittiva
più grave. Ciò avviene del resto nel pieno rispetto dell'art. 46, comma 3, in quanto nel caso di specie e per le particolari ragioni
sopra ricordate ogni misura cautelare diversa risulterebbe inadeguata. Né la
cosa deve stupire in quanto è ciò che esattamente
accade (ed è previsto) per le persone fisiche nei cui confronti (per loro
particolari condizioni soggettive, quali la mancanza di fissa dimora) non
siano applicabili misure cautelari di gradata afflittività, quali gli arresti domiciliari, e sia
applicabile la sola custodia in carcere laddove siano idonee solo misure custodiali.
Questo
non vuol dire peraltro che anche in questo caso non debbano ugualmente
sussistere tutti i requisiti previsti per l'applicazione della misura cautelare
più grave.
Dovendo
quindi essere presenti tutti i requisiti perché possa
adottarsi la sanzione dell'interdizione temporanea dall'intera attività
d'impresa, questo Collegio osserva come l'art. 46, comma 2, preveda che la
misura cautelare deve essere proporzionata «all'entità del fatto e alla
sanzione che si ritiene possa essere applicata».
L'uso
della congiunzione «e» attesta come il riferimento alla proporzione rispetto
alla sanzione risulti ineludibile.
Ma
allora occorre ricordare che l'art. 13 stabilisce la possibilità di applicare
le sanzioni interdittive in
relazione agli illeciti per cui sono previste a condizione che sussista
almeno una delle due seguenti condizioni:
- la
reiterazione degli illeciti;
- un profitto di rilevante entità (con l'aggiunta delle gravi carenze organizzative qualora il reato sia stato commesso da soggetti sottoposti all'altrui direzione).
Posto
che, nel sistema della legge in esame, il contenuto delle misure cautelari
applicate alle società è definito con riferimento alla corrispondente
sanzione (art. 45, comma 1, «... può richiedere l'applicazione quale misura
cautelare di una delle sanzioni interdittive previste
dall'art. 9, comma 2»), il concetto di proporzione implica certamente che
l'interdizione possa essere applicata quale misura
cautelare solo quando si ritenga, quantomeno, che possa essere applicata la
corrispondente sanzione per un tempo analogo.
Ciò
vuol dire che, per rispettare il principio di proporzione delle misure cautelari ex art. 46, comma 2, occorre che sia
verificata la sussistenza dei presupposti per l'applicazione della
corrispondente sanzione, ivi compresi quindi i presupposti di cui al citato
art. 13.
Passando
quindi ad esaminare se sussistano i requisiti di cui all'art. 13, deve
osservarsi che la «reiterazione degli illeciti» è concetto
tecnico espressamente definito nella stessa legge all'art. 20, ove si precisa
che “si ha reiterazione quando l'ente, già condannato in via definitiva almeno
una volta per un illecito dipendente da reato, ne commette un altro nei cinque
anni successivi alla condanna definitiva”.
Posto
che non risulta che la società appellante sia stata
condannata per illecito dipendente da reato, il requisito in esame certamente
non sussiste nella specie.
Per
quanto concerne il requisito del profitto di rilevante entità, questo Collegio
osserva che, anche a prescindere dalla risoluzione della invero non agevole
questione della determinazione del profitto derivante dalla corruzione, non
può dubitarsi che il profitto debba essere ricavato
dall'ente a cui si intenda applicare la sanzione ( e,
in questo caso, la corrispondente misura cautelare).
In tal
senso depone con chiarezza il testo letterale dell'enunciato normativo: «l'ente
ha tratto un profitto di rilevante entità...».
A
questo punto, però, riprendono vigore le censure difensive che, infondate
quanto alla pretesa carenza del requisito dell'interesse all'illecito, si
rilevano decisive per la verifica della sussistenza del requisito del
profitto.
Se infatti non occorre dimostrare ai fini dell'integrazione
dell'illecito che l'ente abbia tratto un vantaggio ed essendo irrilevante che
questo sia futuro e incerto, in quanto connesso alla eventuale futura ripartizione
di utili dalla controllata alla controllante (se utili vi saranno), l'indubbio
carattere eventuale e incerto nel suo ammontare del profitto ricavato dalla
controllante per l'aggiudicazione corruttiva dell'appalto alla controllata
impedisce di formulare fondate conclusioni sul profitto dell'ente controllante
o, quantomeno, non risultano in concreto dedotti in atti elementi sufficienti
per poter determinare quale sia il profitto della controllante.
Neppure
risultano indicati elementi per poter stabilire, ove
si riuscisse a determinare il profitto derivante dall'illecito, in quale
misura esso incida sui profitti dell'ente interessato, così da poter essere
considerato rilevante.
Ritiene infatti questo Collegio che il concetto di «rilevanza del
profitto» possa essere determinato, o in via assoluta quando l'ammontare dello
stesso risulti rilevante a prescindere dalla quota eventualmente
rappresentata rispetto agli altri profitti dell'ente, ovvero perché il profitto
ricavato dall'illecito costituisca parte preponderante dei profitti ricavati dall'ente dall'intera sua attività.
Non risultando indicazioni al riguardo in ordinanza e nella
richiesta, né risultando in atti elementi idonei a evidenziare comunque una
rilevanza del profitto ricavato dall'illecito da parte della società
controllante (e non dalla società che si è aggiudicata l'appalto grazie alla
corruzione), deve quindi ritenersi non verificato il presupposto indicato e
non rispettato il principio di proporzione con conseguente impossibilità di
applicare la misura interdittiva indicata, unica
prospettabile.
(omissis)