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L'inesigibilità dell'adozione e attuazione del modello organizzativo

Quid iuris nelle ipoetsi di mancata adozione o attuazione del Modello organizzativo dovute ad impossibilità aggettiva?

 

L’inesigibilità dell’adozione e dell’attuazione del modello organizzativo ex d.lg. 231/2001

La questione che si intende affrontare in questo scritto attiene alle conseguenze dell’impossibilità di adozione o attuazione – da parte dell’ente collettivo - dei modelli organizzativi previsti dagli artt 6 e 7 del d.lg. 231/2001.

In altri termini: quid iuris se l’ente non ha adottato o non ha attuato il modello organizzativo per fatti e circostanze non riconducibili ad una sua “colpevole inerzia”, ma ad impedimenti oggettivi ed insuperabili?

Gli esempi possono essere molteplici:
- il fatto di reato è stato commesso poco tempo dopo l’entrata in vigore del reato-presupposto e l’organo amministrativo dell’ente non ha avuto nemmeno il tempo di deliberare sull’adozione del Modello;

- l’ente si è adoperato tempestivamente per aggiornare il modello, ma il fatto di reato si è comunque verificato prima dell’adozione formale dello stesso;

- il fatto di reato si è verificato dopo l’adozione formale del modello, ma entro un lasso di tempo tale da non potersi, seriamente, parlare di effettiva attuazione del modello stesso (la quale, come è noto, richiede flussi informativi, formazione del personale, audit, applicazione del sistema disciplinare ecc.).

L’istituto dell’inesigibilità: l’aggiornamento di una vecchia questione?

Secondo l’elaborazione dottrinale l'inesigibilità indica quella particolare situazione, in base alla quale un soggetto, per cause indipendenti dalla propria volontà, si trova nell'impossibilità assoluta di ottemperare ad un determinato precetto normativo.
La nozione in esame ha trovato ampia elaborazione nell'ambito della dottrina civilistica, relativamente alle vicende connesse all'adempimento delle obbligazioni.

Nel rapporto obbligatorio, infatti, il rigore delle conseguenze collegate all'inadempimento è mitigato dal principio secondo cui ad impossibilia nemo tenetur, principio che evidenzia l'esigenza di adeguare il diritto alla realtà effettiva (Giacobbe).

La dottrina penalistica tradizionale qualifica l'inesigibilità quale causa (extralegale) di esclusione della colpevolezza.

La prevalente giurisprudenza manifesta, invece, un atteggiamento di chiusura:

“Il principio della non esigibilita` di una condotta diversa - sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui “umanamente” pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell’antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia juris (Cass. sez. VI, 31 maggio 1993, n. 973, PM in proc. Bove)”.

La dottrina che ha approfondito l’argomento (Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990) ne evidenzia la natura di “strumento di delimitazione dei doveri giuridici incombenti sui consociati”: in altri termini, il legislatore può esprimere fino ad un certo punto il giudizio di disvalore su una determinata condotta (in astratto) e deve rinunciare ad un ulteriore approfondimento, affidando al giudice l’onere della concreta delimitazione della latitudine degli obblighi di azione o di astensione imposti dalla legge in riferimento alle particolari circostanze del caso sottoposto al giudizio.

I valori costituzionali in gioco

Ad avviso di chi scrive l’esclusione dell’esimente in ipotesi caratterizzate da incolpevole omessa adozione/attuazione del modello organizzativo presta il fianco a serie censure di incostituzionalità, concernenti la violazione della presunzione di non colpevolezza, del principio di colpevolezza, del principio di uguaglianza e del diritto di difesa.

Come è stato puntualmente affermato, l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato è il “precipitato tecnico” della presunzione di non colpevolezza di cui all’art 27 comma 2 Cost. (Paulesu).

Secondo la migliore dottrina, gravare l’imputato di oneri probatori non è di per sé incostituzionale, se però l’esercizio di tali oneri è effettivo.

Nelle ipotesi sopra indicate – vale a dire in caso di impossibilità oggettiva ad adottare/attuare il modello - l’inversione dell’onere della prova potrebbe essere ritenuta incostituzionale in quanto sostanzialmente coincidente con una presunzione assoluta ed insuperabile di colpevolezza.

Nelle situazioni menzionate la possibilità di prova contraria da parte dell’ente è radicalmente insussistente.

In secondo luogo consentire l’affermazione di responsabilità (per colpa organizzativa) di un ente in situazioni caratterizzate dall’impossibilità oggettiva di adozione dei modelli significherebbe violare il principio di responsabilità per fatto proprio colpevole sancito dall’art 27 comma 1 Cost., secondo l’interpretazione fornitane da parte della Corte Costituzionale.

Inoltre potrebbe profilarsi pure la lesione del diritto di difesa ex art 24 comma 2 Cost, in quanto nel procedimento l’ente non avrebbe alcuna chance di dimostrare di non aver potuto adottare il modello: in altri termini il d.lg. 231 offre, in certe situazioni, una falsa possibilità di “difendersi provando”.

Infine si potrebbe rilevare pure una violazione del principio di ragionevolezza delle scelte punitive (il quale trova fondamento nell’art 3 Cost) laddove si considerassero allo stesso modo – sanzionandole – due società, entrambe prive dei modelli, ma una solo delle due “per propria colpa”.

In breve: nella categoria generale delle condotte “mancata adozione modello” ce ne sono alcune che per circostanze eccezionali non assurgono alla medesima gravità di altre che non hanno incontrato tali circostanze.

In un processo ex d.lg. 231 potrebbe essere eccepita o rilevata d’ufficio l’illegittimità costituzionale degli artt 6 e 7:
- per contrasto con l’art 27 comma 1 Cost, nella parte in cui non prevedono che l’ente possa andare esente da responsabilità nelle ipotesi in cui, per impossibilità oggettiva, non abbia adottato ed attuato il modello organizzativo;

- per contrasto con l’art 27 comma 2 Cost., nella parte in cui sanciscono una presunzione assoluta di responsabilità laddove l’ente non possa dimostrare di aver adottato e attuato il modello nelle ipotesi di impossibilità oggettiva;

- per contrasto con l’art 24 comma 2 Cost, nella parte in cui non consente all’ente di difendersi dimostrando di essere stato nell’impossibilità oggettiva di adottare il modello organizzativo;

- per contrasto con l’art 3 Cost, nella parte in cui non distingue, ai fini del riconoscimento dell’esimente, tra ente che non abbia adottato e attuato il modello per fatto proprio colpevole ed ente che non abbia adottato il modello per impossibilità oggettiva.


Sul punto specifico ha avuto modo di soffermarsi – senza tuttavia esaminare alcuna doglianza di illegittimità costituzionale - l’ordinanza cautelare emessa da Tribunale Napoli, G.I.P. Saraceno, 26 giugno 2007, di cui si riportano testualmente i passi rilevanti:
“Tutti i modelli, inoltre, risultano intempestivi sotto il profilo della loro adozione, siccome di molto successivi al dies a quo della condotta delittuosa presupposta, rilevante ai fini della responsabilità amministrativa e in corso di esecuzione sin dalla seconda metà dell'anno 2001”.

2. “Priva di pregio è, infatti, l'argomentazione sviluppata dalla difesa, con cui si sostiene che sarebbe astrattamente ipotizzabile una responsabilità delle indagate solo a partire dall'adozione dei rispettivi modelli di organizzazione, non essendo concretamente esigibile nei loro confronti una maggiore tempestività di quella dimostrata, avuto riguardo ai necessari tempi tecnici per l'elaborazione dei codici e per il loro iniziale necessario rodaggio”. Benchè il decreto legislativo non contenga alcuna disposizione che individui un termine entro il quale consentire agli enti di uniformarsi alle nuove disposizioni, dotandosi dei rispettivi modelli, ragioni di ordine logico ed alcuni testuali spunti normativi, dovrebbero precludere la possibilità di fondare l'imputabilità dell'impresa sulla mancata adozione di modelli quando fosse dimostrabile che la mancata adozione non sia dipesa da colpa, ma da oggettiva impossibilità.

3. “In difetto di una testuale ed esplicita previsione, appare opinabile ricorrere a "ragioni di buon senso" per colmare l'asserita lacuna del dato normativo con il rischio di un pericoloso relativismo nell'individuazione del termine di c.d. tolleranza, della cui determinazione, peraltro, dovrebbe farsi carico, di volta in volta, il Giudice chiamato a valutare l'esigibilità di comportamenti più tempestivi di quelli in concreto adottati”.

4. “Ma soprattutto sfugge che il legislatore, pur avendo inteso ancorare il rimprovero dell'ente alla mancata adozione ovvero al mancato rispetto di standards doverosi e, dunque, a motivarlo all'osservanza degli stessi, non ha previsto il modello organizzativo come adempimento obbligatorio, al quale l'ente sia sempre e comunque tenuto, ma come mero onere che l'ente stesso ha interesse ad assolvere per prevenire e paralizzare gli effetti della commissione di reati da parte delle persone fisiche che agiscono al suo interno. Trattandosi di onere che la persona giuridica è portata ad assolvere nel suo stesso interesse e non in adempimento di un obbligo normativo, è del tutto ragionevole la mancata previsione di un termine di c.d. tolleranza per consentire alle imprese di tenere un comportamento, del tutto libero, viceversa, sia nel an che nel quando”.

Non appare risolutiva l’obiezione secondo la quale spetterebbe, di volta in volta, al giudice individuare il periodo di tolleranza, con la possibilità di “arbitrio interpretativo”.

A ben vedere, non dovrebbe trattarsi di una mera individuazione temporale, ma del prudente apprezzamento delle ragioni che hanno reso inesigibile – non semplicemente difficile – l’adozione preventiva del modello (o la sua effettiva attuazione).

Restiamo ancora dal lato del giudicante.

Di fronte alla commissione di un reato-presupposto e all’assenza formale di un modello, il giudice non potrebbe far altro che ritenere integrato il criterio soggettivo di imputazione ex artt 6 e 7, anche se accertasse univocamente la diligenza e la tempestività della società?

E’ proprio in questi casi che potrebbe essere sollevata questione di illegittimità costituzionale.

Nelle situazioni in cui il giudice si trova impossibilitato, in virtù del tenore testuale del d.lg. 231, a dichiarare l’esenzione di responsabilità per mancanza del modello non dovuta a colpa dell’ente, ben potrebbe (anzi dovrebbe) ritenere la questione rilevante e non manifestamente infondata e rimetterla alla Corte costituzionale.

Il dictum della Corte potrebbe essere di natura additiva, sancendo l’incostituzionalità degli artt 6 e 7 d.lg. 231 nella parte in cui non prevedono che l’ente non risponde nelle ipotesi di omessa adozione/attuazione del modello organizzativo dovuta ad impossibilità oggettiva.

(Maurizio Arena)

 

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