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Nota a Trib. Cosenza (dott. Branda) 2/3/09: condanna s.r.l. per truffa aggravata



Nuova condanna all'esito del dibattimento dopo il precedente del procedimento Mychef: importante arresto giurisprudenziale del Tribunale sul delitto di truffa aggravata, sui suoi rapporti con i delitti tributari, sulla confisca e sulla nozione di "profitto".



Leggi la sentenza



Chiudendo le fila del discorso, si osserva che, nel caso all'esame, il D

Tribunale di Cosenza, dr. Branda, 3 dicembre 2008 (dep. 2 marzo 2009), n. 1341                                      

 

1.     I capi d’imputazione

 

1.a La truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche

In sintesi, si contesta il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, perché, l’amministratore unico della M. s.r.l. nella veste di promotore e gli altri quali concorrenti nella fase esecutiva, dopo aver avanzato domanda di finanziamento ai sensi della legge 488/92 per la realizzazione di una industria tessile in favore della società M. s.r.l., con artifici consistiti nella presentazione di false fatture e nella documentazione di spese per l'acquisto di macchinari, in misura artificiosamente gonfiata rispetto a quella effettiva, inducevano in errore la commissione verificatrice e conseguentemente ottenevano dallo Stato una serie di contribuzioni, erogate a stati di avanzamento fino al saldo del 12 febbraio 2003, nella misura complessiva di euro 4.116.971,31, con pari danno per l'amministrazione erogante.

 

“In pratica, veniva riscontrato che la M. effettuava sostanzialmente gli acquisti all'estero e  faceva intestare i macchinari alla E. s.r.l., la quale successivamente li trasferiva alla prima, emettendo fattura per un prezzo notevolmente superiore, anche in misura del 100%; quindi, la stessa M. effettuava il pagamento alla E., documentandolo con il versamento di assegni, ma subito dopo, l'apparente fornitrice restituiva a sua volta il sovrapprezzo mediante assegni circolari che, attraverso una serie di passaggi effettuati con l'indicazione di nomi di fantasia, ritornavano nelle casse dei soci della M.”

 

Nel caso concreto, nel corso delle indagini è stato verificato che le fatture emesse dalla E. nei confronti della M. mascheravano in realtà una interposizione fittizia ed una sovrafatturazione volta ad ottenere i contributi da parte dello Stato, in misura maggiore – pressoché doppia – rispetto  al quella effettivamente spettante.

 

“Il meccanismo posto in essere per frodare lo Stato, può essere così sintetizzato: P. D., legale rappresentante della M., acquistava direttamente presso fornitori esteri i macchinari tessili, compresi nel programma di investimento finanziato ai sensi della legge 488/92; quindi, faceva figurare che l’acquisto era stato effettuato da altra ditta, nella specie dalla E., rappresentata da C. G.,  che, a sua volta, ritrasferiva i beni alla M., con simulata lievitazione dei prezzi. In questo modo – e ne va riconosciuto l’ingegno - , con una sola esca portava a casa due prede; e cioè conseguiva due risultati – entrambi illeciti  ma vantaggiosi economicamente- : da un lato l’interposizione fittizia della connivente E. consentiva una sovrafatturazione simulata che avrebbe poi permesso di documentare allo Stato una spesa pressoché doppia rispetto a quella effettiva, al fine di ottenere una contribuzione, accordata in percentuale, specularmente raddoppiata; dall’altro, essendosi avvalso – come si dimostrerà appresso – di una società cartiera, riusciva ad evadere le imposte, poiché il soggetto che per primo acquistava dai fornitori esteri, perciò tenuto a versare l’IVA, in realtà, data la sua effettiva inconsistenza, si rendeva evasore totale, distraendo in tal modo la responsabilità gravante sull’effettivo ed unico acquirente, individuato nella M.”.

 

1.b I reati tributari

Il P. D., nella qualità di amministratore unico della M. s.r.l. e della T. P. s.r.l., con l’ausilio di …,  soggetti che di volta in volta emettevano false fatture, poneva in essere un sistema diretto ad evadere le imposte attraverso le cosiddette “frodi carosello”, indicando nella dichiarazione dei redditi elementi passivi fittizi riconducibili a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, relative ad acquisti intracomunitari; inoltre, non solo evadeva totalmente l’imposta sul valore aggiunto, ma portava pure in compensazione il corrispondente importo nel modello F.24, causando un ingiusto danno all’Erario.

L’evasione dell’imposta sul valore aggiunto si è realizzata attraverso l’interposizione di società "cartiere" destinate ad apparire, attraverso l’emissione di fatture di vendita nei confronti delle società effettive destinatarie degli acquisti, debitrici dell’Iva verso l’Erario, imposta poi indebitamente mai versata, con conseguente danno patrimoniale a carico dello stesso Erario.

Oltre a ciò è stato accertato che il P.  ha portato in compensazione, quale credito di imposta derivante dall’acquisto di macchinari ammessi al beneficio di cui alla legge 388/2000, quello calcolato utilizzando gli importi risultanti dalle fatture artificiosamente gonfiate.

 

2.     Sul reato di truffa aggravata

2.a Nei fatti sopra accertati sono stati ravvisati gli elementi costitutivi del reato previsto e punito dall’art 640 bis c.p.

 

“Gli artifici sono rappresentati dall’utilizzo delle false fatture con le relative quietanze di pagamento rilasciate dalla E., con cui P. D., nella sua qualità di amministratore della M., faceva apparire alla banca concessionaria, e quindi al Ministero, di aver effettuato investimenti così come programmati anche in relazione alla spesa, sebbene  il costo effettivo fosse pari a circa la metà. L’induzione in errore era ulteriormente sostenuta dalla documentazione del movimento di danaro versato all’apparente fornitrice, la quale, immediatamente dopo, lo restituiva sottobanco ai soci della M. (il cosiddetto flusso di ritorno). L’ingiusto profitto derivava dal fatto che la banca concessionaria, così indotta in errore, riteneva documentate spese in misura doppia di quella effettiva e, di conseguenza, erogava contribuzioni specularmente raddoppiate rispetto all’importo meritevole di finanziamento”.

 

2.b I rapporti con i delitti di cui agli artt 316 ter e 316 bis c.p.

La difesa ha prospettato il diverso inquadramento nella fattispecie di cui all’art. 316  ter c.p.

 

“La distinzione tra il reato di indebita percezione di pubbliche erogazioni e quello di truffa aggravata, finalizzata al conseguimento delle stesse, va ravvisata nella mancata inclusione tra gli elementi costitutivi del primo reato della induzione in errore del soggetto passivo. Pertanto qualora l'erogazione consegua alla mera presentazione di una dichiarazione mendace senza costituire l'effetto dell'induzione in errore dell'ente erogante circa i presupposti che la legittimano, ricorre la fattispecie prevista dall'art. 316 ter cod. pen. e non quella di cui all'art. 640 bis cod. pen. (Cass. n. 30155/2007). Laddove invece l’autore non si sia limitato a rendere dichiarazioni mendaci, ma abbia predisposto una serie di artifici, che abbiano indotto in errore il soggetto passivo, ricorre la truffa”.

 

Occorre partire dalla considerazione che la realizzazione dell’inganno mediante il falso è l’elemento che caratterizza la truffa, cosicché l'ambito di applicabilità dell'art. 316 ter c.p. è circoscritto a situazioni come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l'autore della disposizione patrimoniale.

 

“In effetti, in molti casi, il procedimento di erogazione delle pubbliche sovvenzioni non presuppone l'effettivo accertamento da parte dell'erogatore dei presupposti del singolo contributo; ma ammette che il riconoscimento e la stessa determinazione del contributo siano fondati, almeno in via provvisoria, sulla mera dichiarazione del soggetto interessato, riservando eventualmente a una fase successiva le opportune verifiche. Sicché in questi casi l'erogazione può non dipendere da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell'erogatore, che in realtà si rappresenta correttamente solo l'esistenza della formale dichiarazione del richiedente.

D'altro canto l'effettivo realizzarsi di una falsa rappresentazione della realtà da parte dell'erogatore, con la conseguente integrazione degli estremi della truffa, può dipendere, oltre che dalla disciplina normativa del procedimento, anche dalle modalità effettive del suo svolgimento nel singolo caso concreto. E quindi l'accertamento dell'esistenza di un'induzione in errore, quale elemento costitutivo del delitto di truffa, ovvero la sua mancanza, con la conseguente configurazione del delitto previsto dall'art. 316 ter c.p., è questione di fatto, che risulta riservata al giudice del merito”.

 

Nel caso concreto, le erogazioni della seconda,  della terza quota e di quella a saldo, erano state effettuate a stati di avanzamento ed a consuntivo, dopo che la banca concessionaria aveva verificato la realizzazione della corrispondente parte di investimenti, mediante la consultazione della documentazione esibita dal P.

 

“Come si è già ampiamente detto, la suddetta verifica è stata viziata da errore determinato da artifici e raggiri, consistiti nel prospettare e documentare spese per investimenti in macchinari artatamente gonfiate. Si sottolinea che le rete degli artifici non si è limitata alla presentazione delle fatture false, ma è stata così abilmente tessuta a tal punto da far figurare addirittura il versamento dell’intero importo fatturato e quietanzato, mediante la documentazione di tutti i passaggi di danaro dalla M. alla E.; salvo poi ottenere la restituzione del sovrapprezzo attraverso il flusso di ritorno, ovviamente avvenuto sottobanco ed all’insaputa del verificatore. L’ente deputato alla verifica degli investimenti, propedeutica al rimborso della spesa, è stato in tal modo indotto in errore, ed in conseguenza dell’errore ha consentito l’erogazione del contributo”.

 

E’ stata altresì esclusa la configurabilità del reato previsto e punito dall’art 316 bis c.p. (Chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità Europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità).

L'art. 316 bis c.p., essendo inteso a reprimere la distrazione dei contributi pubblici dalle finalità per le quali erano stati erogati, non può che riferirsi appunto alla malversazione  dei contributi distraendoli dal vincolo di destinazione; gli artt. 316 ter e 640 bis c.p., sono entrambi destinati a reprimere la percezione di per sé indebita dei contributi, indipendentemente dalla loro successiva destinazione.

 

“L’ipotesi di cui all’articolo 316 bis sarebbe  riferibile, al più, in relazione alla prima quota se versata in acconto; in tal caso infatti prima del versamento non risulterebbe posto in essere alcun artificio; il beneficiario avrebbe solo successivamente distratto l’acconto ricevuto dalla finalità per cui era stato riconosciuto. Tale configurazione però non si attaglia alle erogazioni della seconda, terza quota e saldo, effettuate  a stati di avanzamento ed a consuntivo, ovvero subordinatamente alla verifica da parte della banca concessionaria in ordine alla effettiva realizzazione della corrispondente parte di investimenti. Dunque nel caso di specie,  l’induzione in errore ha determinato la percezione del contributo; e non si è trattato perciò di una semplice malversazione, non preceduta da artifici”.

 

2.c Il momento consumativo del reato

Si è affermato in giurisprudenza che il momento consumativo del delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche coincide con quello della cessazione dei pagamenti, che segna anche la fine dell'aggravamento del danno, in ragione della natura di reato a consumazione prolungata (Cass. sez. 2,  n. 26256  del 24/4/2007 : sulla base di questo principio la Corte ha escluso l'illegittimità del sequestro per equivalente finalizzato alla confisca, che era stato disposto nonostante che il contratto di mutuo allo scopo fosse precedente all'entrata in vigore della legge n. 300 del 2000, che ha inserito nel c.p. l'art. 640 quater). 

E ciò perché il soggetto agente manifesta sin dall'inizio la volontà di realizzare un evento destinato a durare nel tempo, e quindi il momento consumativo del reato coincide con quello della cessazione dei pagamenti, che segna la fine dell'aggravamento del danno (Cass. Sez. 2, n. 3615 del 20/12/2005).

 

“Nel concreto caso, dunque si deve  precisare che il momento iniziale va individuato nella realizzazione della condotta truffaldina, consistita nella esibizione delle fatture false, e nell’allestimento della rete di artifici, consistiti nella allegazione di quietanza liberatoria, nella documentazione di pagamenti (che poi sarebbero in parte rientrati sottobanco), tali da indurre in errore  l’ente verificatore sulla erogabilità della seconda  e terza quota e del saldo; la consumazione coincide con il versamento del saldo, avvenuto con bonifico del 12 marzo 2003. A partire da questa data e fino a quella della decisione, non è ancora decorso il  termine necessario a prescrivere e l’intera condotta si è consumata sotto il vigore della legge n. 300 del 2000”.

 

Non è stato ritenuto pertinente il richiamo a quella decisione che, sempre in tema di erogazioni periodiche, ha ravvisato la consumazione nel momento costitutivo del rapporto, escludendo la configurabilità di una consumazione prolungata in relazione alla percezione dei ratei successivamente maturati.

In quel caso l’ingiustizia del danno era circoscritta alla fase costitutiva del rapporto, e non anche al suo successivo svolgimento, connotato comunque da prestazioni sinallagmatiche la cui remunerazione trovava una ragione nei principi dell’arricchimento sine causa (Cass., S. U. n. 1 del 1999).


3. Sui reati fiscali

Per quanto riguarda i reati tributari, i punti controversi in diritto, riguardavano essenzialmente la configurabilità del concorso di reati tra il  delitto di cui all’articolo 2 d.lg. 74/2000 e quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640 bis c.p.

Il Giudice non ha avuto dubbi sull’effettiva ravvisabilità del concorso.

 

“Infatti, come insegna la Suprema Corte, il delitto di frode fiscale può concorrere, attesa l'evidente diversità del bene giuridico protetto, con quello di truffa comunitaria, purché allo specifico dolo di evasione si affianchi una distinta ed autonoma finalità extratributaria non perseguita dall'agente in via esclusiva, essendo diversi i soggetti passivi tratti in errore e diversi i patrimoni aggrediti; e specificamente nel caso in cui un soggetto ottenga, attraverso l'artificio di utilizzare fatture passive per operazioni inesistenti, oltre ad un indebito rimborso dell'imposta sul valore aggiunto e/o il riconoscimento di un inesistente credito d'imposta, anche la concessione di un contributo pubblico per l'acquisto di beni strumentali (Cass. S.U., 25 ottobre 2000 n. 27). Il principio è stato recentemente confermato, con riguardo ad un caso – assolutamente corrispondente a quello in esame -  in cui le fatture erano state emesse da una società fittiziamente fatta figurare come acquirente di merci provenienti dall'estero e quindi tenuta a riscuotere, all'atto della rivendita, l'IVA dovuta per l'importazione, per versarla quindi all'Erario; adempimento, questo, che, però, risultava sistematicamente omesso, con la conseguenza che le relative somme venivano incamerate dagli effettivi destinatari delle merci importate (Cass., V, 23 gennaio 2007 n. 6825; II, 23 novembre 2006 n. 40226)”.

 

Più problematica appariva la questione relativa alla configurabilità del concorso tra il delitto di cui all’articolo 2 d.lg. 74/2000 e la truffa aggravata ai danni dello Stato, relativa alla illecita compensazione nel modello F24  del credito di imposta determinato sulla base delle fatture emesse da soggetti fittiziamente interposti, con artificiosa maggiorazione degli importi addebitati,  posto che in entrambe le ipotesi unico obiettivo dell’autore è quello di evadere le imposte.

 

“Sul punto si alternano in giurisprudenza due orientamenti. Recentemente si è affermato che in tema di rapporti fra il reato di frode fiscale, di cui all'art. 2 D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, e quello di truffa aggravata in danno dello Stato, di cui all'art. 640, comma secondo, n. 1, c. p., se per un verso deve escludersi che operi il principio di specialità di cui all'art. 15 c. p. (mancando l'identità naturalistica del fatto, dal momento che la frode fiscale richiede un artificio peculiare mentre la truffa, dal canto suo, richiede l'induzione in errore ed il danno, indifferenti per il reato tributario), deve per altro verso riconoscersi l'operatività del principio di consunzione, per il quale è sufficiente l'unità normativa del fatto, desumibile dall'omogeneità tra i fini dei due precetti, con conseguente assorbimento dell'ipotesi meno grave in quella più grave; condizione, questa, riconoscibile, nella specie, per il fatto che l'apprezzamento negativo della condotta è tutto ricompreso nella più grave ipotesi di reato, costituita dalla frode fiscale (Cass., III, 10 luglio 2007 n. 37409). La ratio sottesa alla suddetta ricostruzione è nel senso che qualsiasi condotta di frode al fisco, se non intende realizzare obiettivi diversi, non può che esaurirsi all'interno del quadro sanzionatorio delineato dalla apposita normativa. Incidentalmente si evidenza che pure in questa impostazione è comunque assodato che allorquando, attraverso l'attività di una società "cartiera", oltre all’evasione del tributo (o all’indebito rimborso), si perseguono finalità ulteriori - tipica l'ipotesi della emissione di false fatture per consentire ad un operatore di ottenere indebitamente contributi, comunitari e non - è evidente che non potrà sussistere alcun problema di rapporto di specialità fra norme, venendo in discorso una condotta finalisticamente "plurima" e tale da ledere o esporre a pericolo beni fra loro differenti. E’ tuttavia prevalente la tesi  - qui condivisa - secondo cui,  non sussistendo rapporto di specialità tra il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma secondo, c. p.) consumata a mezzo della indebita evasione dell'IVA e quello di frode fiscale, è comunque ipotizzabile il concorso di reati, sia perché il secondo non include o comprende tutti gli elementi del primo, sia perché si tratta di fattispecie volte alla tutela di interessi diversi, sia, infine, perché - quanto alla loro oggettività - nel reato di frode fiscale non occorre l'effettiva induzione in errore dell'Amministrazione finanziaria né il conseguimento dell'ingiusto profitto con danno dell'Amministrazione (Cass., III, 14 novembre 2007 n. 14707; V, n. 6825/2007)”.

 

Occorre sottolineare, che nella frode fiscale, diversamente dalla truffa ex art. 640 co. 1 c.p., non occorre la effettiva induzione in errore dell'amministrazione finanziaria ne' il raggiungimento dell'ingiusto profitto con danno dell'amministrazione; inoltre, diverso è il profilo soggettivo, cioè il dolo che, nel reato tributario è configurato nella forma del "dolo specifico" di evasione fiscale e in quello di truffa nella forma della consapevolezza e volontà dell'ingiusto profitto patrimoniale effettivamente conseguito.

 

4.     L’illecito amministrativo dell’ente

4.a Alla  M. s.r.l. si contestava l’illecito amministrativo ex art. 24 d.lg. 231, perché nell’interesse e a vantaggio della stessa, l’amministratore unico poneva in essere la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, prevista e punita dall’articolo 640 bis c.p., facendole ottenere contribuzioni da parte dello Stato in misura di euro 4.116.971,31, erogate in più tranches dal 3 gennaio 2000 al 12 febbraio 2003.

 

“Seppure si debba considerare la responsabilità creata dalla norma come un "tertium genus", risultante dalla fusione dei principi della responsabilità amministrativa con principi e concetti propri della sfera penale, la sanzione a carico della persona giuridica postula innanzitutto il presupposto oggettivo che il reato sia commesso nell'interesse dell'ente da persone che agiscono al suo interno (articolo 5): con esclusione, quindi, dei fatti illeciti posti in essere nel loro interesse esclusivo, per un fine personalissimo o di terzi, ovvero condotte estranee alla politica di impresa. A ciò il legislatore ha inteso affiancare, in sede di normazione delegata, un ulteriore requisito di natura soggettiva, in qualche modo assimilabile ad una sorta di "culpa in vigilando" consistente nella inesistenza di un modello di organizzazione, gestione o controllo idonei a prevenire i reati, similmente ai modelli statunitensi dei "compliance programmes". Il requisito riguarda anche i reati commessi dal personale dirigente: e ciò  contraddistingue il nostro sistema nel panorama giuridico comparato, improntato, piuttosto, alla teoria della identificazione pura”.

Rispetto a questo quadro normativo la difesa ha sollevato due eccezioni di incostituzionalità, attinenti alla disparità di trattamento rispetto all’impresa individuale e alla violazione del diritto di difesa per la rappresentanza processuale conferita all’amministratore giudiziario.

Il Tribunale ha ritenuto i prospettati dubbi di costituzionalità manifestamente infondati ed inammissibili.

 

“La prima questione è davvero inconsistente, per la semplice ragione che nell’impresa individuale non si ravvisa altro soggetto giuridico distinto dal titolare persona fisica, tenuta ovviamente a rispondere. La seconda è stata rimessa negli stessi termini alla Corte, la quale,  con una pregevole ordinanza (n. 186 del 2007), ne ha dichiarato la manifesta inammissibilità; e qui certamente non potrebbe darsene migliore spiegazione”.

 

In applicazione dei suddetti principi alla fattispecie in esame, nessun dubbio che P. D., amministratore unico della M., rientri tra i soggetti che il d.lg. n. 231, all’art 5, definisce in posizione apicale ("le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione ed il controllo dello stesso"). Anzi, egli è stato considerato il dominus, promotore dell’intera vicenda criminosa: in qualità di amministratore unico della M. conduce le trattative con i fornitori stranieri e controfirma la corrispondenza in cui indica il soggetto fittiziamente interposto a cui intestare i macchinari; presenzia alla verifica della spesa da parte della banca concessionaria, esibendo le false fatture; autocertifica di aver sostenuto gli investimenti nella misura artificiosamente maggiorata.

 

“Neppure eccepita,  l'inesistenza della c.d. colpa  per effetto della presenza di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi, adeguatamente monitorati da un organismo di vigilanza. E’ opportuno ricordare che l’onere della prova relativa al suddetto requisito  è invertito a carico dell'ente: art. 6 decreto citato. E comunque, considerate la composizione sociale, prettamente a base familiare, l’assoluta predominanza e libero arbitrio del P. nella gestione, è da escludere un ragionevole interesse a contrastare iniziative illecite eventualmente realizzabili dall’amministratore”.

 

Restava quindi da esaminare la sussistenza del requisito oggettivo dell'interesse e del vantaggio dell'ente, condizione di applicabilità della sanzione.

 

“Orbene, è innanzitutto necessario sottolineare che la M. s.r.l. è stata costituita allo scopo di ottenere il finanziamento ai sensi della legge 488/92, dal momento che l’attività programmata coincide con quella che avrebbe dovuto giovarsi delle contribuzioni pubbliche; del resto, questo ha sostenuto la stessa difesa del P. per dare spiegazione al fatto che società sarebbe stata costituita pochissimo tempo prima della presentazione della domanda di contribuzione. Dunque, l’interesse della condotta truffaldina era evidentemente orientato a favorire l’attività dell’ente. Indubbio è poi il vantaggio, poiché i contributi ottenuti con la frode sono stati appunto incassati dalla stessa M.”

 

4.b La confisca

Le questioni principali da esaminare si concentravano sulla natura della confisca e sull’oggetto di tale misura, ovvero il profitto.

 

“In linea generale, si è osservato che la confisca nel nostro ordinamento non ha una natura unitaria ed omogenea. Il codice penale ha catalogato la confisca di cui all'art. 240 c.p. tra le misure di sicurezza, pur prescindendo dall'accertamento della pericolosità dell'autore del reato, richiesta invece per l'applicazione delle misure di sicurezza personali (l'art. 236 c.p., che disciplina le misure di sicurezza patrimoniali, non richiama – infatti - l'art. 202 dello stesso codice).
La giurisprudenza ha sempre riconosciuto nella confisca disciplinata dal codice penale, in linea con la scelta del legislatore, una effettiva misura di sicurezza patrimoniale, fondata sulla pericolosità derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato ovvero delle cose che ne sono il prodotto o il profitto e finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche se i corrispondenti effetti ablativi si risolvono sostanzialmente in una sanzione pecuniaria (Cass. S.U. 22 gennaio 1983, Costa). In prosieguo sono state introdotte ipotesi di confisca obbligatoria dei beni strumentali alla consumazione del reato e del profitto ricavato, con caratteristiche differenti. Cosi, con l'obiettivo di privare l'autore del reato soprattutto del profitto che ne deriva, sono state introdotte ipotesi di confisca nella forma per equivalente che, di fronte all'impossibilità di aggredire il bene direttamente conseguito, va ad incidere su somme di denaro, beni o altre utilità di pertinenza del condannato per un valore corrispondente a quello dello stesso profitto. Questa ipotesi di confisca - per equivalente o di valore - introdotta in molte norme del codice penale (artt. 322ter, 600septies, 640quater, 644, 648quater) e in disposizioni della legislazione speciale (artt. 187 T.U.F., 2641 c.c., 11 legge n. 146/'06), ha i tratti distintivi di una vera e propria sanzione, allontanandosi dallo schema della misura di sicurezza incentrato sulla intrinseca pericolosità della cosa. D'altra parte, la stessa Corte Costituzionale (sentenze 25 maggio 1961 n. 29 e 4 giugno 1964 n. 46), da tempo ha chiarito, che "la confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica" e che "il suo contenuto è sempre la privazione di beni economici, ma questa può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varie finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa", con l'effetto che viene in rilievo "non una astratta e generica figura di confisca, ma, in concreto, la confisca così come risulta da una determinata legge".

 

Nel d.lg. 231 ricorrono diverse ipotesi di confisca.

L'art. 9, comma 1 lett. c) prevede la confisca come sanzione.

Diversa ipotesi di confisca ricorre al quinto comma dell'art. 6 che prevede la confisca del profitto del reato, commesso da persone che rivestono funzioni apicali, anche nell'ipotesi particolare in cui l'ente vada esente da responsabilità, per avere validamente adottato e attuato le misure precauzionali  previste dalla stessa norma. In questa ipotesi, si deve escludere la natura sanzionatoria della misura ablativa, proprio perché difetta una responsabilità dell'ente.

L'art. 15 comma 4 prevede la confisca del profitto derivante dalla prosecuzione dell'attività, in caso di commissariamento dell'ente.

La confisca, infine, si atteggia nuovamente come sanzione principale nell'art. 23 comma 2, che configura la responsabilità dell'ente per il delitto di cui al primo comma della stessa norma, commesso nell'interesse o a vantaggio del medesimo ente.

 

Nel caso concreto, si tratta della confisca – sanzione, quale conseguenza della condanna per illecito amministrativo, da applicarsi per equivalente posto che non può essere più eseguita in forma specifica, data l’utilizzazione dei  contributi ricevuti. Si è già accennato che questo tipo di confisca non può essere retroattivo. Infatti non solo la confisca per equivalente riveste carattere sanzionatorio per espressa previsione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 9, ma solo con tale D.Lgs. è stata introdotta la responsabilità delle persone giuridiche”.

Pure rilevante è la questione relativa a come debba configurarsi il "profitto del reato" suscettibile di confisca ai sensi degli artt. 19 e 53 d. lg. n. 231, nei confronti di una società indagata per un illecito amministrativo dipendente da reato.

 

“Infatti, con riferimento al caso concreto, ove si acceda alla tesi del cosiddetto “profitto lordo”, potrà essere suscettibile di confisca (e salvo il divieto di irretroattività) l’intera contribuzione ricevuta per effetto dell’illecito e non solo la quota eccedente il valore effettivo dei macchinari realmente acquistati. In materia, è necessario attenersi a due principi fondamentali: il necessario collegamento eziologico del profitto con l’illecito e la differente estensione della nozione rispetto ai concetti della scienza aziendale. Sotto il primo profilo, principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità è che il profitto del reato presuppone l'accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell'agente:  occorre cioè una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall'illecito (Cass 14 giugno 2006 n. 31988; Cass. 4 novembre 2003 n. 46780). Sia ben chiaro, non è necessario che si tratti dello stesso bene ricevuto in conseguenza del reato, dovendosi  ricomprendervi anche il bene acquistato col denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, dato che tale reimpiego è comunque casualmente ricollegabile al reato e al profitto "immediato" dello stesso (Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2007 n. 10280). E ciò per l’ovvia esigenza di evitare che l'autore dell’illecito possa sottrarre il profitto alla misura ablativa ricorrendo all'escamotage di trasformare il bene ricevuto in altra utilità, individuabile nel frutto del reimpiego; anche questo, infatti, può essere  causalmente ricollegabile in modo univoco all'attività criminosa posta in essere dall'agente. Ancora, sempre con attinenza alla derivazione causale, si ritiene che il reato debba essere causa da cui derivi il profitto ingiusto e non mera occasione di una utilità che comunque sia giustificata, ad esempio, da una controprestazione in favore della P.A.  (Cass. S.U.n, 27 marzo 2008 n. 26654)”.

 

Nel d. lg. n. 231 il termine "profitto" è menzionato in diverse disposizioni, che disciplinano situazioni eterogenee.

Il profitto del reato è, innanzitutto, l'oggetto della confisca-sanzione di cui agli artt. 9, 19 e 23.

 

“La Convenzione OCSE 17 dicembre 1997 ha impegnato gli Stati aderenti ad adottare misure idonee alla confisca o comunque alla "sottrazione" dei "proventi" dei reati, precisandosi che con quest'ultimo termine devono intendersi i profitti, gli altri benefici o gli altri vantaggi ottenuti o mantenuti attraverso la condotta illecita"; tale precisazione chiarisce, in definitiva, che con il termine "proventi" (proceeds) si sono voluti indicare tutti i vantaggi ricavati dalla commissione dei reati. Nella relazione allo schema del decreto legislativo "la confisca <per equivalente>, è finalizzata ad  “evitare che l'ente riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili per un'apprensione con le forme della confisca ordinaria". L'esplicito riferimento alla necessità di evitare l'illegittimo godimento da parte dell'ente dei "proventi del reato" induce a ritenere che con tale espressione si sia inteso evocare quanto complessivamente percepito dall'ente in seguito alla consumazione del reato, prescindendo da qualunque raffronto tra profitto lordo e profitto netto. Ricorre altresì un argomento di carattere logico per l’esatta delimitazione del profitto oggetto di confisca-sanzione ricavabile dal principio generale secondo cui  il crimine non rappresenta in alcun ordinamento un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del "profitto netto" finirebbe per riversare sullo Stato il rischio di esito negativo del reato ed il reo e, per lui, l'ente di riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio di perdita economica”.

 

In sintesi può affermarsi che la confisca debba interessare l’intero beneficio, laddove si ravvisi un nesso di derivazione causale con l’illecito.

 

“Nel caso concreto, dunque, è suscettibile di confisca l’intera contribuzione ricevuta, ricollegabile casualmente all’illecito (sia pure nell’osservanza del principio di irretroattività). Si potrebbe obiettare, però con scarsa ragione, che comunque parte dei contributi ricevuti sono stati effettivamente utilizzati per l’acquisto di macchinari, sia pure lucrandone il sovrapprezzo artificiosamente simulato. Non è possibile tuttavia enucleare una porzione di utilità lecita, ricorrendo i presupposti revoca totale dell’intera contribuzione, riconducibile – come si è già evidenziato – allo scostamento dagli indicatori in misura addirittura superiore al 30%. Non è da ostacolo alla confisca la clausola di salvezza prevista nel citato articolo 19. La norma, quando parla di “parte che può essere restituita ….”, fa riferimento allo stesso bene ricevuto con la erogazione, non potendosi perciò restituire allo Stato che ha elargito finanziamenti in danaro, immobili, attrezzature o quote sociali, evidentemente di diversa natura, che di conseguenza ben possono essere confiscati. Del resto, essendo  stato disposto il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, è implicito che sia diventato impossibile restituire il bene originariamente ricevuto, dovendosi, appunto, ottenere la riparazione per equivalente.

 

5.     Il dispositivo

La M. s.r.l. è stata dichiarata responsabile dell'illecito amministrativo contestato e alla stessa sono state applicate le seguenti sanzioni: 

- sanzione pecuniaria di euro 75.000,00, pari a numero 250 quote, da euro 300 ciascuna; 

- sanzione interdittiva del divieto di pubblicizzare beni e servizi;

- confisca ex art 19, commi 1 e 2, dei beni in sequestro, fino all'ammontare di euro 2.094.943,37 e senza duplicazione con la confisca disposta nei confronti di P. D.; 

- pubblicazione della sentenza, per una sola volta e per estratto, sul quotidiano "la Gazzetta del Sud "; 

- condanna al pagamento delle spese processuali. 

 

(Maurizio Arena)



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