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Insider trading: disciplina vigente e prospettive di riforma
parmeggiani Normal . 2 1834 2005-04-13T06:47:00Z 2005-04-20T11:45:00Z 2005-04-20T11:45:00Z 1 9296 52993 ministero giustizia 441 124 62165 10.2625 Clean Clean 14 MicrosoftInternetExplorer4Prima di compiere una breve analisi sulla repressione del reato di insider trading nell’esperienza legislativa italiana, occorre innanzitutto premettere cosa sottenda la nozione di “insider trading “ secondo quanto oramai assodato nella maggior parte delle legislazioni nazionali in materia. Dette legislazioni convengono in modo pressoché unanime nel definire l’insider trading come “utilizzazione di informazioni chiave prima che esse divengano di pubblico dominio” (1), e nel considerare fattispecie rilevanti sanzionate dalle discipline in materia (1) l’impiego di informazioni privilegiate nel compimento di operazioni su strumenti finanziari, (2) la comunicazione a terzi di tali informazioni in assenza di giustificato motivo (c.d. tipping), (3) la raccomandazione a terzi di porre in essere tali operazioni, senza rivelare loro le informazioni privilegiate possedute (c.d tuyautage).
E’ inoltre opportuno premettere alla nostra analisi un’ulteriore considerazione preliminare: il fatto che l’insider trading in Italia sia sempre stato disciplinato solo come reato, non significa che tale fenomeno debba essere concepito e positivizzato solo in termini penalistici.
Volendo gettare uno sguardo comparatistico (2) sulle legislazioni dei maggiori paesi a capitalismo avanzato, è possibile constatare che l’insider trading, concepito tendenzialmente come utilizzo di informazioni riservate in operazioni su strumenti finanziari, riceve una regolamentazione ed una conseguente repressione articolata su più livelli. Ma facciamo degli esempi concreti.
La legislazione statunitense, che è sicuramente considerata quella maggiormente all’avanguardia nella repressione degli abusi di mercato e, più in generale, dei reati finanziari, offre una vasta gamma di rimedi. In primo luogo è utile menzionare il rimedio civile, inteso come un’azione, sia individuale che nella forma di class-action, esperibile dagli investitori che hanno negoziato con l’insider in quanto controparte contrattuale nell’operazione di vendita o di acquisto degli strumenti finanziari oggetto del suo trading (3). In secondo luogo sono presenti una serie di sanzioni amministrative, direttamente irrogabili dalla SEC (Securities Exchange Commission, ossia l’autorità di vigilanza sui mercati delle securities statunitensi), la quale può emanare provvedimenti ingiuntivi (c.d. injunctions), dai quali scaturiscono obblighi di compiere o di astenersi dal compimento di un atto determinato, la violazione dei quali è reato. La SEC inoltre può sospendere l’attività degli insiders o revocare le autorizzazioni ad essi rilasciate. Per di più, ai sensi del Security Exchange Act, così come innovato dall’ Insider Trading Sanctions Act (1984) e dall’ Insider trading and Securities Fraud Act (1988), all’authority federale è data la facoltà di avviare procedimenti amministrativi o di esperire azioni civili a prescindere dall’apertura di un procedimento penale , potendo chiedere sanzioni pecuniarie (c.d. civil penalities) commisurate al profitto conseguito dall’insider e agire anche nei confronti di brokers, dealers, investment advisers responsabili anche solo per negligenza degli illeciti compiuti da dipendenti e collaboratori (4).
Particolarmente dissuasive paiono infine le sanzioni penali, essendo prevista per i soggetti che pongano in essere le predette condotte la reclusione fino a 10 anni e una sanzione pecuniaria che può, per la persone giuridiche, ammontare anche a 2.582.000 euro. Abbastanza singolare risulta poi essere la possibilità di corrispondere a coloro che forniscono indicazioni utili a individuare casi di insider trading una taglia (bounty) in cui ammontare può essere pari anche al 10% della sanzione pecuniaria inflitta all’insider colpevole.
Come è possibile constatare le risposte sanzionatorie predisposte nel sistema americano sono molteplici e di varia natura; spicca poi in particolar modo il dato secondo cui la sanzione precipua destinata alla repressione delle condotte di insider trading sia quella di tipo amministrativo, erogabile con maggiore facilità, mentre della sanzione penale ci si vale come ulteriore strumento stigmatizzante riservato ai casi di maggior gravità.
Un simile approccio alle condotte illecite derivanti dallo sfruttamento di informazioni privilegiate da parte di insiders non solo è ampiamente diffuso nel mondo anglosassone (5), ma per certi versi è rintracciabile anche nell’ambito di esperienze legislative continentali, solitamente meno distanti da quella italiana. La stessa legislazione francese, che non ha mai conosciuto l’azione civile, affianca alle sanzioni penali (consistenti nella pena detentiva fino a 2 anni e in una multa fino a massimo 10 volte il profitto conseguito o, se inferiore, fino a 1.549.000 euro) diversi rimedi di carattere amministrativo, consistenti nella facoltà in capo alla Autoritè des Marchès Financiers (AMF) di disporre il divieto per gli insiders di esercitare la professione precedentemente svolta o di irrogare una sanzione pecuniaria pari a minimo 1.500.000 euro.
Tale premessa risulta utile ai fini di una disamina della disciplina a tutt’oggi vigente nel nostro ordinamento per comprendere innanzitutto come la nostra esperienza legislativa che fornisce alla condotte di insider trading una risposta solo penale rappresenta un’eccezione nel panorama internazionale. Questo dato non deve stupire in quanto l’Italia soffre da sempre di un cronico ritardo nella predisposizione e nell’aggiornamento della propria legislazione finanziaria, e il caso della disciplina repressiva dell’insider trading non fa eccezione: la prima legge in materia di cui l’Italia si è dotata, la l. 17-5-1991 n. 157, emanata in recepimento della direttiva 89/592/CE, giunge 21 anni dopo la prima normativa francese e ben 58 anni dopo quella americana (rappresentata dal Securities Act del 1933).
La legge testè menzionata sollevò, a causa del suo dettato approssimativo e poco rispettoso di diversi principi fondanti del diritto penale (quali il principio di colpevolezza o di offensività) la critica quasi unanime della dottrina e della stessa Consob (6). Perciò, in sede di riordino delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria operata dal Testo Unico 58/98 il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre una nuova disciplina. Detta disciplina, in seguito al recepimento nel nostro paese della Direttiva 2003/6/CE in materia di abusi di mercato, è stata profondamente rinnovata. Compito della presente trattazione sarà cercare di mettere a confronto il previgente regime con quello attualmente in vigore, in modo da porre in evidenza le molteplici innovazioni intervenute e trarre da un simile confronto alcune considerazioni sulla natura e sulla portata sottesa alla condotta illecita in esame.
La previgente disciplina dell’insider trading era dunque racchiusa negli artt. 180- 187, inseriti nella parteV, titolo I (“sanzioni penali”), capo IV (rubricato come “Abuso di informazioni privilegiate e aggiotaggio su strumenti finanziari”) del Testo Unico della Finanza (d’ora in avanti per comodità TUF), ove era contenuta la formulazione della fattispecie base, le sanzioni accessorie e le norme procedimentali, comprese anche le facoltà attribuite alla Consob nell’accertamento del summenzionato reato.
L’art. 180 TUF (rubricato come “abuso di informazioni privilegiate”) rivestiva un’importanza fondamentale nell’ambito della precedente disciplina in materia di insider trading, in esso è infatti contenuto il cuore di tale disciplina, ossia: la definizione della condotta dell’insider primario e delle fattispecie di tipping e tuyautage; le disposizioni inerenti al regime sanzionatorio previsto per i predetti reati; la nozione di “informazione privilegiata” integrante la condotta illecita; la disposizione finale che fa salvi dalla disciplina in questione le operazioni dello Stato italiano, della Banca d’Italia e dell’Ufficio Italiano Cambi.
Disponeva il comma 1° dell’art. 180 che “E’ punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 10.329 a euro 309.874 chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della partecipazione al capitale di una società, ovvero all’esercizio di una funzione, anche pubblica, di una professione o di un ufficio:
a) acquista, vende o compie altre operazioni, anche per interposta persona, su strumenti finanziari avvalendosi delle informazioni medesime;
b) senza giustificato motivo dà comunicazione delle informazioni, ovvero consiglia ad altri, sulla base di esse, il compimento di taluna delle operazioni indicate nella lettera a).”
Data la formulazione della fattispecie base è opportuno individuare preliminarmente l’ampiezza del novero dei soggetti attivi, ossia la portata effettiva della qualifica di “insider”, che individua in via precipua i soggetti integranti la predetta condotta illecita.
Come si può evincere dal testo del citato comma 1° sono destinatari dei divieti di cui alla lettere a) e b) tutti coloro che sono in possesso di informazioni privilegiate in ragione della partecipazione al capitale di una società, ovvero dell’esercizio di una funzione, privata o pubblica, di una professione o di un ufficio. Tali soggetti sono i cosiddetti “insiders primari”, ossia coloro che hanno diretto accesso al surplus informativo il cui sfruttamento integra il reato in questione, non essendoci altri soggetti che fungono da fonte rivelatrice, iniziando il soggetto al vantaggio informativo.
Continuando quindi sulla linea tracciata dall’art. 2 della l. 157/91, degli insiders non viene predisposto un elenco basato sulle varie tipologie di soggetti, ma si preferisce delimitarne la categoria richiamando la modalità con cui il soggetto ha ottenuto l’informazione privilegiata oggetto del reato. Tale soluzione si rivela sicuramente più duttile e adattabile al caso concreto in quanto fonda la qualità di soggetto attivo del reato su un elemento essenziale per la configurazione del reato medesimo, cioè il nesso di causalità tra funzione ricoperta dal soggetto e il conseguimento del vantaggio informativo. Pertanto, perché un soggetto possa dirsi insider, non è sufficiente il mero rilievo che esso rivesta una particolare carica, essendo invece necessario che tale carica sia stata la fonte dell’informazione che integra la fattispecie di reato.
Fatta questa preliminare precisazione, possono essere inclusi nel novero degli insiders primari coloro che abbiano conseguito il vantaggio informativo in ragione della loro partecipazione ad una società, coloro che stabilmente ricoprano una carica all’interno della struttura organizzativa di una società (insiders istituzionali o corporate insiders), sia infine coloro che ricoprono una mansione esterna all’apparato organizzativo sociale, ma che consente loro di accedere episodicamente ad informazioni privilegiate (temporary insiders). Rientrano dunque negli insiders istituzionali gli amministratori, i dirigenti, i sindaci, insomma” l’intero management e tutti i dipendenti” (7); sono invece da considerarsi temporary insiders chi esercita attività di consulenza legale, consulenza commerciale e chi ricopre cariche in organismi esterni alla società, che possono essere pubblici (quali la Consob) o privati (quali le società di gestione del mercato) (8).
Discorso a parte meritano gli azionisti, i quali, come accadeva anche nella previgente disciplina, sono presi in considerazione a prescindere dall’entità della loro partecipazione.
Gran parte della dottrina è sempre stata critica nei confronti di tale scelta legislativa (9), asserendo che, se certamente un pacchetto azionario di controllo o quantomeno di dimensioni rilevanti avrebbe potuto comportare per il proprio titolare l’accesso ad una posizione di vantaggio informativo, ciò non sarebbe valso per coloro che sono detentori di partecipazioni di modesta entità. Questi ultimi si troverebbero di fatto nella stessa situazione di tutti i comuni investitori, non disponendo di maggiori opportunità di accedere ad informazioni privilegiate.
Tali preoccupazioni, a ben vedere, sembrano però perdere di rilievo qualora si consideri che ai fini della disciplina in esame, la partecipazione assume rilevanza solo in quanto causa del conseguimento dell’informazione privilegiata, perciò di fatto se tale collegamento causale non sussiste l’azionista sarà trattato alla stregua di qualsiasi altro investitore (10).
Se, inoltre, si fosse optato per una diversa soluzione che avesse operato distinzioni tra gli azionisti, sarebbe stata sicuramente poco agevole la definizione di un criterio che fungesse da discrimine tra azionisti rilevanti e non, data la diversità degli assetti partecipativi nei vari tipi di società (11).
Per portare qualche esempio concreto l’azionista è punito come insider qualora, a causa della sua posizione nella società, sia reso edotto di un progetto che il comitato esecutivo ha in cantiere.
Viceversa, sarà trattato alla stregua di qualsiasi altro tippee qualora fosse stato informato di tali futuri progetti dal analista finanziario al quale si era rivolto per dei consigli di investimento, se, in ipotesi, costui svolgesse consulenze anche per la società.
Qualche dubbio è stato sollevato sulla vigenza del disposto in esame anche nei confronti di coloro che detengono solo diritti frazionari sulle azioni ( usufruttuario, creditore pignoratizio).
La dottrina sul punto ha dato risposta negativa (12), rilevando che il dettato richiama testualmente “la partecipazione al capitale”, si è ritenuto che fossero esclusi coloro che non fossero proprietari delle azioni, ancorché non fossero riscontrabili rilevanti differenze tra le due categorie di soggetti riguardo alla possibilità di accedere alle informazione privilegiate.
Va poi precisato che il testo della norma faceva riferimento alla partecipazione in una qualsiasi società, non intendendo per forza la società emittente gli strumenti finanziari oggetto delle operazioni incriminate. Una simile previsione sarebbe coerente con una concezione dell’insider trading come mera violazione di un vincolo fiduciario che intercorre tra soggetto insider e società di appartenenza, ma la fattispecie in esame non era configurabile in tal senso, non operando alcuna distinzione a livello sanzionatorio tra corporate insider e temporary insider, perciò ogni perplessità al riguardo è destinata a cadere. In merito a questo punto, la situazione più comune che si può portare ad esempio è quella concernente il socio che viene a conoscenza del fatto che la società alla quale partecipa s’accinge a lanciare un’OPA sui titoli di altra emittente (13).
Ma in cosa consiste concretamente il divieto che la legge rivolgeva ai menzionati di soggetti?
Innanzitutto, ai sensi dell’art. 180, 1°c., lett. a) all’insider era fatto divieto di compiere operazioni su strumenti finanziari avvalendosi delle informazioni privilegiate di cui disponeva. Detta formulazione richiede dunque un elemento ben preciso, ossia l’effettivo sfruttamento delle informazioni privilegiate nelle operazioni poste in essere dall’insider. Questa costruzione del precetto punitivo aveva comportato il discostarsi della disciplina italiana dalla regola sottostante alla precedente legge 157/91, ossia la cosiddetta “disclose or abstain rule”, precetto di origine statunitense (14) sulla base del quale chi si fosse trovato in possesso di informazioni privilegiate avrebbe avuto due possibilità: o divulgarle, o astenersi totalmente dal compimento di qualsivoglia operazione sui mercati finanziari.
Dal momento che l’impostazione ex l. 157/91 finiva per includere nell’area della punibilità anche condotte non propriamente meritevoli di repressione, potendo così costituire un ostacolo al compimento di operazioni perfettamente lecite e utili (15) (fenomeno questo che la dottrina economica suole chiamare overkilling), la formulazione ex TUF appariva finalizzata ad un’azione maggiormente mirata, al fine di colpire solo le condotte capaci di mettere a repentaglio la credibilità del mercato, cioè quelle in cui il surplus informativo viene concretamente utilizzato a vantaggio dell’insider.
A questo punto però è da rilevarsi che, rimodellata la fattispecie secondo canoni maggiormente rispettosi del principio di offensività (o necessaria lesività) del fatto integrante reato, sorgesse un rilevante problema di carattere pratico. Infatti la difficoltà di fornire la prova dell’utilizzazione delle informazioni privilegiate nelle operazioni incriminate rendeva notevolmente più arduo il regime probatorio sotteso alla disciplina in questione. Il rischio principale dunque che il regime previgente correva era quello di frustrare l’azione deterrente dell’intera normativa, che già da prima non poteva certamente vantare un elevato numero di applicazioni in sede processuale.
In ogni caso è assodato che la disciplina che scaturiva dal Testo Unico facesse salve numerose condotte caratterizzate da un minor disvalore che in precedenza potevano anche solo astrattamente essere perseguite: lasciando da parte alcune ipotesi accademiche (quale l’insider che compie operazioni in senso opposto a quello suggerito dall’informazione), sono sicuramente da menzionare i vari casi di operazioni d’acquisto di azioni proprie; le operazioni consistenti in esecuzione di ordini preformati nel loro contenuto e più genericamente le operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari differenti da quelli interessati dal vantaggio informativo. Resta poi sempre valido il principio secondo cui chi produce il fatto oggetto dell’informazione privilegiata (16) o chi la ottiene come risultato di una propria attività di ricerca mirata è legittimato al suo sfruttamento, potendosi configurare un illegittima utilizzazione del vantaggio informativo solo nel caso in cui esso sia stato conseguito “senza sforzi”, cioè meramente in ragione della posizione ricoperta. Residuavano comunque delle zone grigie rappresentate da casi in cui l’abuso di informazioni privilegiate si presenta in forme “spurie” o quantomeno peculiari. Tali ipotesi trovavano di sovente una disciplina in ordinamenti stranieri (in particolar modo anglosassoni), ma erano sconosciute al corpus normativo italiano, nonostante la difficoltà di farle rientrare totalmente nella succitata disciplina. Sono tali ad esempio i fenomeni di front running, cioè quando l’intermediario effettua per conto proprio operazioni dello stesso segno di quelle che compie per conto di un cliente (ad es. nell’ambito di un’OPA); si ha poi un caso di warehousing quando l’intermediario, a conoscenza dell’imminente lancio di un’OPA da parte di un cliente, acquista titoli della società bersaglio per poi rivenderglieli. In questi casi peculiari probabilmente più che il ricorso alla disciplina repressiva, sarebbe più utile il potenziamento dell’assetto preventivo, ossia la predisposizione all’interno di detti intermediari di chinese walls che impediscano il confluire delle informazioni privilegiate tra i vari settori in cui sono articolati; ovvero tramite la compilazione di restricted lists, che consistono in elenchi di quegli strumenti finanziari oggetto di una negoziazione per conto terzi, sui quali l’intermediario non può compiere operazioni per conto proprio.
Alla lettera b) del medesimo art.180, 1°c. erano disciplinate le condotte illecite che più o meno in tutte le esperienze legislative accompagnano la previsione normativa dell’insider trading in senso stretto, ossia le condotte concernenti le ipotesi in cui l’insider comunichi a terzi le informazioni privilegiate (c.d. tipping) ovvero consigli a terzi di compiere operazioni sulla base di esse, senza però rivelare le informazioni medesime (c.d. tuyautage).
Il tipping perciò consiste nella rivelazione ad opera di un insider primario (detto tipper) di informazioni privilegiate da esso possedute ad un terzo, detto tippee, con la conseguente possibilità che questi, analogamente a quanto potrebbe fare l’insider, se ne serva in operazioni su strumenti finanziari.
Il tuyautage invece consiste sostanzialmente in nel mero consiglio ad opera dell’insider, di una o più operazioni sulla scorta di informazioni privilegiate da esso possedute- e che non vengono rivelate- diretto ad un terzo, detto tuyautee.
Innanzitutto è da osservarsi come le condotte di tipping e tuyautage sottendano un disvalore minore, o per lo meno differente, rispetto alla condotta di insider trading in senso stretto. Infatti mentre l’insider che compie di operazioni su strumenti finanziari sulla scorta del proprio vantaggio informativo lede “sua manu” la credibilità e la fiducia riposta dagli investitori nel mercato, lo stesso non potrebbe dirsi della condotta dell’insider che semplicemente inizia un terzo al proprio vantaggio o che gli suggerisce il compimento di un operazione che potrebbe rivelarsi fruttuosa. In queste due ultime fattispecie la lesione alla credibilità del mercato è, in ogni caso, rimessa alla volontà di chi è reso edotto delle informazioni (tippee) o di colui al quale è rivolto il consiglio (tuyautee). Nel caso del tipping poi, l’effettiva portata lesiva della condotta è anche condizionata alle capacità ermeneutiche del tippee, ben potendo questi estrapolare dall’informazione un significato economico differente da quello che l’operazione suggerirebbe.
In base a queste riflessioni la volontà del legislatore di accomunare queste fattispecie all’insider trading sotto il profilo della risposta punitiva, è spiegabile solo facendo discendere la ratio della punibilità del tipping e del tuyautage dalla lesione, sottesa al compimento di dette condotte, del vincolo fiduciario intercorrente tra l’insider e la società per la quale opera.
Ai fini della punibilità dell’insider/tipper, per comunicazione s’intende ogni forma di trasmissione dell’informazione operata dall’insider, escluso il caso di trasferimento fortuito di essa, perciò rileva la volontà dell’insider di iniziare il tippee al vantaggio informativo. L’inciso della lett. b) “senza giustificato motivo” sembrava poi riferirsi non solo alle scriminanti positivamente individuate (ad es. quelle di cui all’art. 51 c.p.), ma più in generale ad ogni situazione di carattere professionale capace di giustificare la comunicazione (17), per esempio i casi di comunicazioni infragruppo finalizzate alla redazione del bilancio consolidato e più genericamente le divulgazioni di notizie operate ai sensi dell’art. 114 TUF. In definitiva perciò sembra si possa dire che non ricadano nell’area della punibilità tutti quei passaggi di informazioni che appaiono inequivocabilmente ispirati ad una finalità differente da quella dello sfruttamento del vantaggio conseguito.
Giova inoltre ricordare che sia il reato di tipping che quello di tuyautage sono punibili in base al dolo generico, perciò a prescindere dal fatto che poi il destinatario ponga in essere le operazioni suggerite dall’informazione o dall’insider stesso. La consumazione si ha con il trasferimento dell’informazione del consiglio, e un’ipotesi di tentativo è astrattamente configurabile nel caso della comunicazione che viene effettuata ma che non perviene al destinatario. E’ poi necessario sottolineare che, mentre il tippee era soggetto al regime di cui si dirà infra, il tuyautee invece andava esente da pena, a meno che non avesse compiuto le operazioni per conto dell’insider, realizzandosi così un’ipotesi di concorso nel reato di insider trading.
Come appena visto, il tippee è il soggetto che riceve l’informazione privilegiata dall’insider. Anche nei confronti di tale categoria di soggetti la disciplina repressiva dell’insider trading ha sempre posto dei divieti. In particolare il comma 2° dello stesso art. 180 TUF stabiliva che “con la stessa pena è altresì punito chiunque, avendo ottenuto, direttamente o indirettamente, informazioni privilegiate dai soggetti indicati nel comma 1, compie taluno dei fatti descritti nella lettera a) del medesimo comma”. Perciò, secondo la legge previgente, era punibile la condotta del tippee che avesse compiuto, anche per interposta persona, operazioni su strumenti finanziari avvalendosi delle informazioni privilegiate comunicategli dall’insider primario. Mentre il disposto della legge 157/91 estendeva ai tippes tutti i divieti destinati agli insiders, equiparando così a livello sanzionatorio condotte meritevoli di differenti trattamenti, la previsione dell’art.180, 2° c. puniva solo l’ipotesi del tippee trading, in quanto considerato valido mezzo per dispiegare sulla credibilità del mercato i medesimi effetti destabilizzanti propri dell’insider trading in senso stretto. Non erano sanzionate dunque le ipotesi concernenti la comunicazione dell’informazione o il consiglio sulla base di essa in quanto, come già rilevato, la punibilità delle stesse appare imperniata principalmente sulla violazione dell’obbligo di fedeltà peculiare dell’abuso funzionale (18) (19). Anche il trading del tippee è punito in base al dolo generico, essendo di conseguenza necessario e sufficiente a configurare il reato l’esecuzione di operazioni su strumenti finanziari sfruttando le informazioni privilegiate ottenute dall’insider primario. Il medesimo comma 2° poi sottolineava che le informazioni possono essere ottenute dall’insider “direttamente o indirettamente”, tale locuzione stava a significare che da un lato era fatto divieto di compiere operazioni borsistiche anche al tippee che avesse conseguito il suo vantaggio accidentalmente o all’insaputa dell’insider (essendo ovviamente conscio del carattere privilegiato delle informazioni); dall’altro che i divieti contenuti nel comma in esame fossero estendibili anche a coloro che fossero iniziati dal tippee stesso, i c.d. sub-tippees.
Per quanto concerne il novero delle condotte punibili merita attenzione il disposto del 6° c. del medesimo art. 180 TUF che esimeva dall’azione repressiva “le operazioni compiute per conto dello Stato Italiano, della Banca d’Italia, e dell’Ufficio Italiano dei Cambi per ragioni attinenti alla politica economica”.
Il comma 3° dell’art. 180 precisava cosa esattamente si intendesse nei commi precedenti per informazione privilegiata, il che costituisce un elemento essenziale per la configurazione delle predette fattispecie illecite. Detto comma specificava le peculiarità atte ad individuare l’informazione in questione, che doveva consistere in: (1) di un’informazione specifica di contenuto determinato; (2) di cui il pubblico non disponesse; (3) concernente strumenti finanziari o emittenti strumenti finanziari; (4) che, se resa pubblica, sarebbe stata idonea ad influenzarne sensibilmente il prezzo.
In merito al requisito della specificità e determinatezza del contenuto, va puntualizzato che esso è funzionale ad escludere dalla nozione di informazione rilevante i c.d rumors, ossia le voci che spesso si diffondono nei mercati finanziari e che sono prive di un riscontro concreto (20). Per il resto non è necessario che l’informazione si qualifichi come hard information, ma l’importante è che abbia un minimo di rilevanza fattuale, che non sia il frutto di una mera elaborazione (21).
La locuzione “di cui il pubblico non dispone” sembra poi assumere come fattore qualificante l’informazione privilegiata non tanto le formali modalità di diffusione volte a divulgare i fatti oggetto di essa, ma la sua effettiva conoscibilità da parte del pubblico, ammettendosi così che una cosa è la divulgazione secondo i mezzi previsti dalla legge, altra cosa è l’oggettiva fruibilità delle notizie divulgate (22).
L’inerenza dell’informazione agli strumenti finanziari o ai loro emittenti comporta la rilevanza di tutte le informazioni che si mostrino ad essi attinenti, a prescindere dal fatto che si tratti di corporate o di market information, ben potendo l’informazione concernere anche un intero comparto finanziario o industriale, o addirittura un fenomeno di carattere macroeconomico.
Ultimo ed essenziale requisito è la c.d. price sensitivity dell’informazione, ossia la sua idoneità, una volta resa pubblica, di incidere sensibilmente sui prezzi degli strumenti finanziari. Ovviamente l’individuazione di una soglia di incisività non è agevole data la enorme varietà degli strumenti quotati, perciò si ritiene che si debba risolvere la questione basandosi sul singolo caso in esame. Altrettanto difficoltosa risulta poi essere la quantificazione dell’incisività su i prezzi, dal momento che essa deve essere rilevata in base ad una prognosi postuma da operarsi ex ante, cioè prendendo come momento di riferimento quello in cui fu commesso il fatto integrante il reato. Ai fini dell’accertamento viene poi presa in considerazione non tanto l’incidenza che il fatto oggetto dell’informazione ha concretamente dispiegato sui prezzi, quanto la sua astratta idoneità ad influenzarli, prendendo atto delle difficoltà di tale ponderazione, dal momento che sono molti i fattori che si riverberano sulle quotazioni dei mercati finanziari e che perciò è spesso arduo isolare l’ampiezza della variazione conseguente ad uno solo di essi.
L’art. 180, 1°c. prevedeva una pena detentiva fino a due anni e la multa da 10.329 a 309.874 euro. Le sanzioni apparivano perciò raddoppiate rispetto a quanto previsto dalla l. 157/91, nonostante permanessero notevolmente al di sotto di quanto previsto dalle legislazioni dei maggiori paesi a capitalismo avanzato. Inoltre, come già accennato, la sanzione penale non era affiancata da nessun rimedio alternativo e , come rilevato da eminente dottrina (23), il quantum di pena finale poteva comunque essere interamente monetizzato, rendendo vane tutte le possibilità di vedere in carcere anche l’insider che si fosse macchiato della condotta più grave. Il legislatore poi non si era premurato di prevedere alcuna differenziazione di pena in base alla condotta, salvo stabilire all’art. 180 comma 4 la possibilità di aumentare la multa fino al triplo ogniqualvolta essa fosse apparsa inadeguata, pure se applicata nel massimo, per la rilevante offensività del fatto, per le qualità personali del colpevole o per l’entità del profitto che era derivato. Furono perciò svariate le critiche mosse alla nostra precedente legislazione, tra tutti i punti maggiormente controversi aveva sicuramente destato perplessità il mancato recepimento della disposizione presente in numerose esperienze legislative estere, che àncora il minimo della pena irrogabile al profitto conseguito attraverso le operazioni incriminate. Così facendo si avrebbe avuto la comminazione di un quantum di pena effettivamente proporzionale alla lesività della condotta posta in essere (24).
Costituiva invece una nota positiva il disposto dell art. 180,5°c. ai sensi del quale, “nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 c.p.p., sempre ordinata la confisca dei mezzi, anche finanziari, utilizzati per commettere il reato, e dei beni che ne costituiscono il profitto, salvo che essi non appartengano a persona estranea al reato” . Tale disposizione risultava essenziale a sottrarre al reo la disponibilità dei proventi del reato, cautela che la l. 157/91 non contemplava, nonostante rimanesse da chiarire la l’ampiezza del concetto di “profitto oggetto della confisca”, potendosi intendere più restrittivamente come “la conseguenza economica immediata del reato”, ovvero anche ricomprendere “le somme di denaro e i beni di cui il reo ha disponibilità anche per interposta persona” (25). In definitiva è dunque possibile affermare come, a prescindere da queste dispute, la confisca disposta dal comma 4 avrebbe potuto rappresentare “uno spauracchio finanche più efficace della pena” (26), anche se non è possibile non constatare la scarsa deterrenza dimostrata dalla disciplina scaturente dal precedente dettato del TUF, che a tutt’oggi può vantare pochissime applicazioni sfociate in una condanna.
L’art.182 stabiliva che chi fosse condannato per i reati di insider trading o aggiotaggio su strumenti finanziari sarebbe incorso nelle pene accessorie di interdizione dai pubblici uffici (art. 28 c.p.), interdizione da una professione o da un’arte (art. 30 c.p.), interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art. 32-bis c.p.), incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (art. 32-ter c.p.) per una durata non inferiore a sei mesi e non superiore a due anni, e la sentenza di condanna avrebbe dovuto essere pubblicata su almeno due quotidiani, di cui uno economico, a diffusione nazionale. Come sottolineato in dottrina (27), la pena accessoria è uno strumento che può espletare funzioni differenti; nel caso in esame è plausibile che abbia un fine innanzitutto afflittivo, infatti, specialmente in un reato di cui la pena è interamente monetizzabile, le inabilitazioni conseguenti a dette sanzioni aggiuntive possono dispiegare un’efficacia deterrente anche maggiore rispetto alla pena principale (28). In secondo luogo poi le pene accessorie avente carattere interdittivo sono funzionali anche a prevenire un’eventuale recidiva del soggetto che ha posto in essere la condotta criminosa nell’esercizio di una professione o di un’attività economica.
Da tale rilievo discende l’atteggiamento critico di quella dottrina (29) che, in sintonia con il disposto dell’art. 27, 3°c. Cost. ( secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato), vorrebbe che le interdizioni conseguenti alle pene accessorie trovassero applicazione solo ove sia ravvisabile nella condotta del reo un abuso funzionale, configurandosi altrimenti come misure insensatamente stigmatizzanti. Nonostante la fondatezza di tali considerazioni occorre sottolineare però che la concreta applicazione delle pene accessorie è pesantemente condizionata alla possibile concessione del patteggiamento o della sospensione condizionale della pena.
Per quanto riguarda poi la pubblicazione della sentenza di condanna, spettava al giudice decidere sull’opportunità di pubblicarla per intero o per estratto, e designare i quotidiani. Era sottinteso che essa fosse eseguita a spese del condannato.
L’art. 184 sanciva che nel procedimento penale per i reati di cui agli art. 180 e 181 (poi 2637 c.c.), potesse essere disposta la misura interdittiva di cui all’ art. 290, 1°c. c.p.p. (divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali). Tale disposizione ricalcava l’art. 2,5°c della l. 157/91, apportando però alcune correzioni di rotta. Innanzitutto estendeva l’applicabilità della suddetta misura interdittiva anche alla fattispecie di aggiotaggio, ma in particolare, specificava che la misura potesse essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena di cui all’art. 287, 1°c., c.p.p. Tale novità chiariva un punto discusso e controverso della precedente legge, in quanto, mancando qualsiasi ulteriore riferimento all’art. 2, comma 5, l. 157/91, era dubbio se la misura in questione potesse essere applicata oltre i limiti succitati anche nei procedimenti per casi di insider trading. Una risposta affermativa era possibile solo qualora si facesse rientrare l’insider trading nelle categorie di reati di cui al comma 2 dell’art. 290, annoverandolo tra i reati contro l’economia pubblica, l’industria o il commercio. Soluzione questa che si mostrava non del tutto convincente e che la successiva precisazione normativa avrebbe definitivamente accantonato.
Il disposto dell’art. 183 delimitava il campo di applicazione della normativa sub 180 e 181, precisando quanto stabilito all’art. 2, 6° c., l. 157/91, che prevedeva l’applicazione delle pene di cui al comma 5 del medesimo art. 2, anche qualora il fatto fosse stato commesso all’estero, purchè avesse ad oggetto valori mobiliari negoziati in mercati regolamentati italiani.
La disciplina in esame riprendeva quanto disposto in materia di insider trading e ne estendeva la applicabilità anche in relazione alla disciplina sull’aggiotaggio, sancendo al comma 1 che “i reati previsti dagli articoli 180 e 181 (oggi 2637c.c.) sono puniti secondo la legge italiana anche se commessi all’estero, qualora attengano a strumenti finanziari negoziati presso mercati regolamentati italiani”.
Tale disposizione che estendeva anche al di fuori dei confini nazionali la vigenza della disciplina italiana, appare assolutamente giustificata in un ambito quale quello dei mercati finanziari, nel quale è possibile porre in essere operazioni speculative su una certa piazza a prescindere dal luogo in cui ci si trovi. Non a caso la stessa direttiva sull’insider trading (89/592/CE) sottolineava nei suoi “considerando” la necessità che tutti i paesi europei si dotassero in materia di una disciplina armonizzata, al fine di contrastare meglio le operazioni transfrontaliere effettuate da persone in possesso di informazioni privilegiate ( nono considerando).
La disposizione di carattere generale era invece presente al comma 2 che stabiliva, salvo quanto disposto dal comma 1, che le succitate discipline trovassero applicazione riguardo ai fatti riguardanti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione nei mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione Europea.
Alla luce di quanto illustrato si può in sintesi affermare che le disposizioni in materia di insider trading e aggiotaggio trovassero applicazione nei confronti delle condotte poste in essere in Italia aventi ad oggetto strumenti finanziari negoziati su un mercato regolamentato italiano o di un paese aderente alla UE, ovvero nei confronti delle condotte poste in essere all’estero aventi ad oggetto strumenti finanziari negoziati su un mercato regolamentato italiano.
Come avviene in tutti gli ordinamenti dei paesi a capitalismo avanzato, l’autorità di vigilanza sui mercati finanziari si configura come il soggetto che ha maggiori possibilità, sulla scorta dell’attività svolta, di venire a conoscenza di ipotesi di insider trading o aggiotaggio su strumenti finanziari. Si può affermare inoltre che più sono penetranti e incisivi i poteri di indagine ad essa accordati, maggiori sono le possibilità che le condotte criminose vengano alla luce.
Di siffatta situazione il legislatore italiano da un punto di vista meramente formale ha sempre preso atto, avendo sempre dedicato disposizioni normative alle facoltà attribuite alla Consob, ma di fatto i poteri di cui la Consob ha potuto disporre fino ad oggi sono ben poca cosa rispetto a quelli di cui è dotata la SEC americana o anche solo la FSA britannica e la AMF francese (30).
Già con riferimento al regime ex l. 157/91 era da rilevarsi come la Consob potesse disporre di una quantità e qualità di strumenti di indagine decisamente inferiori rispetto a gran parte delle autorità di vigilanza estere, in quanto la commissione non era dotata di poteri sanzionatori diretti o di poteri conservativi (c.d. freezing of the assets) , né le era consentito il sequestro di documenti. In generale emergeva l’impossibilità per la Consob di effettuare in via non mediata interventi tempestivi, capaci quantomeno di raccogliere eventuali prove, prima che esse potessero essere inquinate o essere rese irreperibili (31).
Proprio in base a quanto rilevato, da più parti ci si auspicava che, con il riordino della materia conseguente all’adozione del Testo Unico sull’intermediazione finanziaria, potesse avere luogo un ripensamento in merito ai mezzi e ai poteri di indagine accordati alla commissione. Infatti, come preventivato, il ruolo e l’azione della Consob furono uno dei punti più dibattuti in sede parlamentare: furono proposte, tra le altre cose, l’attribuzione alla Consob dei poteri propri degli agenti di polizia tributaria e in particolare della facoltà di compiere intercettazioni telefoniche, la previsione di una collaborazione di carattere privilegiato con la Guardia di Finanza ed un ampliamento dell’organico di 20 unità, ma tutte queste iniziative vennero cassate (32).
Di conseguenza il Testo Unico approvato conservava ben poco di quanto era stato preventivato in materia di poteri della Consob, nonostante apportasse alcune modifiche rilevanti alla precedente disciplina.
Gli artt. 185 e 186 mutavano infatti il sistema di competenze relativo all’accertamento del reato, in precedenza imperniato sul ruolo di filtro tecnico della Consob che comportava l’accentramento di tutte le notitiae criminis presso il suo presidente (33).
L’art. 185 esordiva disponendo al comma 1 che “quando ha notizia di taluno dei reati previsti dagli art. 180 e 181(oggi 2637) il pubblico ministero ne informa senza ritardo il presidente della Consob”. Tale disposizione, che apparentemente riprendeva quanto previsto dall’art. 8,5°c. l. 157/91, andava poi correlata con il dettato dell’art.186, ai sensi del quale “terminati gli accertamenti, il Presidente della Consob trasmette al pubblico ministero, corredata da una relazione, la documentazione raccolta nello svolgimento dell’attività prevista dall’art. 185”.
Il disposto congiunto delle disposizioni citate, che a prima vista sembrerebbe attingere a piene mani dalla l. 157/91, in realtà tracciava una diversa fisionomia del rapporto intercorrente tra Consob e magistratura inquirente.
Innanzitutto non era riproposta in capo al Presidente della Consob la competenza esclusiva ad acquisire le denunce inerenti alle ipotesi di reato, perciò veniva a cadere anche l’azione selettiva della commissione di vigilanza sulla fondatezza delle notitiae criminis, né sembrava ancora configurabile una sua attività istruttoria che sia completamente svincolata dall’autorità giudiziaria (34).
Una volta ricevuta l’informazione da parte del pubblico ministero, la Consob espletava tutte le attività ispettive necessarie e, una volta terminati gli accertamenti, il Presidente della Commissione trasmetteva la documentazione prodotta, corredata di una relazione, alla magistratura inquirente. Perciò, mentre secondo in precedenza l’attività ispettiva della magistratura era subordinata ad un esito positivo di quella della Consob, nel sistema da poco riformato era possibile che le due attività fossero portate avanti parallelamente. Inoltre la relazione della commissione da trasmettersi al pubblico ministero era resa obbligatoria, a prescindere dal riscontro effettivo di elementi in grado di avvallare l’ipotesi di reato. In un simile contesto dunque il ruolo dell’autorità di vigilanza sembrava assumere dei connotati più consultivi che concretamente inquirenti, potendosi ancora rinvenire per la Consob un ruolo di filtro tecnico solo nei casi in cui il fumus mali iuris fosse rinvenuto autonomamente dalla commissione (35), che di conseguenza avrebbe proceduto con l’attività ispettiva e avrebbe reso edotta la magistratura inquirente solo una volta terminati gli accertamenti preliminari (36).
Ma in cosa era mutata nel metodo l’attività di vigilanza della Consob?
Disponeva al riguardo il comma 2 dell’art.185 che “la Consob compie gli atti di accertamento delle violazioni avvalendosi dei poteri ad essa attribuiti nei confronti dei soggetti sottoposti alla sua vigilanza”; nei confronti dei soggetti vigilati pertanto la commissione godeva di ampi poteri (quale quello di richiedere dati, notizie e documenti nonché quello di compiere ispezioni). Poiché però di detti poteri investigativi era possibile valersi solo nei confronti dei menzionati soggetti (37), a completamento di essi il comma 3 dell’art. 185 attribuiva alla Consob anche: (lett. a) la facoltà di richiedere dati , notizie o documenti a chiunque appaia informato sui fatti, stabilendo un termine per la conseguente comunicazione; (lett. b) la facoltà di procedere all’audizione di chiunque appaia informato sui fatti, redigendone processo verbale; (lett. c) la facoltà di avvalersi della collaborazione delle pubbliche amministrazioni ed accedere al sistema informativo dell’anagrafe tributaria senza inoltrare apposita richiesta al Ministero delle Finanze.
L’art.187 infine sanciva che nell’ambito dei procedimenti per i reati di cui agli artt.180 e 181 la Consob esercitasse i diritti e le facoltà propri delle associazioni e degli enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato. Tale disposizione, che ricalcava in parte il comma 6 dell’art.8 l. 157/91, è spiegabile in base al rilievo secondo cui l’insider trading e le condotte manipolative del mercato ledono un interesse generale, che è quello, menzionato più volte, della credibilità e liquidità dei mercati. Perciò il soggetto che meglio poteva farsi portatore di tale interesse era l’autorità che è preposta a vigilare sul loro corretto andamento.
In definitiva è da rilevarsi come i poteri che il TUF aveva concesso alla Consob non solo non sembravano sufficienti ad un’accurata ed incisiva attività di prevenzione delle fattispecie criminose in esame, ma la commissione pareva addirittura depotenziata rispetto quanto previsto dalla l. 157/91, che, se non altro, estendeva i poteri tipici della Consob a tutti i soggetti rientranti nella previsione della disciplina dell’insider trading e dell’aggiotaggio su strumenti finanziari. Tale passaggio non è di poco conto, in quanto la successiva previsione maggiormente restrittiva escludeva la possibilità di compiere ispezioni nei confronti di gran parte dei soggetti che possono essere coinvolti nel compimento degli illeciti che la normativa si proponeva di reprimere.
La nuova disciplina inoltre non si era premurata di riproporre l’apparato sanzionatorio volto a colpire chi fosse di ostacolo alle attività investigative della commissione, che in diversi casi si presentavano prive di una reale forza coercitiva.
Come osservato da certa dottrina (38), una disciplina repressiva che comporti notevoli difficoltà in campo probatorio, sanzioni certo non allarmanti e uno scarso apparato preventivo, è prevedibile che dispieghi ben poca efficacia deterrente, rischiando così di rimanere lettera morta.
Come è stato poc’anzi ribadito, la disciplina scaturente dal Testo Unico sulla finanza (d.lgs. 58/98) si era mostrata carente di incisività sotto più aspetti.
In primo luogo è stato rilevato come dalla formulazione della fattispecie di reato conseguisse un regime probatorio notevolmente più gravoso, che rendesse più difficoltosa la stessa incriminazione dei soggetti autori della condotta.
Assodato poi che l’efficacia di una disciplina che miri a reprimere l’insider trading dipenda in larga parte dai poteri investigativi e di accertamento conferiti all’autorità nazionale di vigilanza sui mercati finanziari, è evidente che, visti gli scarsi poteri di cui era dotata, la Consob italiana difficilmente avesse la possibilità di dispiegare un’azione tempestiva e risolutiva.
Un ulteriore punto problematico era inoltre costituito dalla storica assenza, nella disciplina italiana repressiva degli abusi di mercato, di un apparato sanzionatorio di carattere amministrativo, da sempre presente nelle normative dei maggiori paesi a capitalismo avanzato. Il solo strumento penale, infatti, non si era rivelato in grado di fornire una risposta punitiva agli illeciti in questione che fosse adeguatamente deterrente e stigmatizzante.
Un’ultima considerazione merita infine anche la non perfetta riconducibilità al quadro normativo vigente di quei fenomeni affini alle fattispecie disciplinate, ma che presentano dei tratti del tutto peculiari (quali ad esempio lo scalping, il front running o la c.d. trade based manipulation).
Un’auspicabile prospettiva di riforma della disciplina vigente è stata offerta, come di consueto, da un impulso comunitario. E’ stata infatti, dopo un tortuoso iter, recepita nel nostro paese la direttiva 2003/6/CE relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (o più genericamente agli abusi di mercato). Lo scopo di tale direttiva è quello di sostituire la precedente direttiva 89/592/CEE, il cui disposto non è più in linea coi tempi, e di predisporre un minimum di disciplina comune a tutti gli stati membri al fine di tutelare e garantire il buon funzionamento dei mercati finanziari europei. Non occorre riportare in questa sede il travagliato iter di recepimento di detta direttiva, peraltro sintomo della scarsa percezione a livello istituzionale dell’urgenza di una riforma nel settore legislativo in esame, ma è maggiormente opportuno passare direttamente ad una sommaria analisi dell’ art. 9 della legge comunitaria 2004 in modo da cogliere le innovazioni apportate alla disciplina che s’accinge ad entrare in vigore.
(Federico Parmeggiani)
1) Tale definizione, mutuata dal dizionario dei termini finanziari Barron’s, è riportata in L. ARICI Il reato di insider trading nella legislazione italiana, in Rivista della Guardia di Finanza, 2002,p.1130. Cfr. pure DI AMATO, voce insider trading, in Enciclopedia del diritto, Aggiornamento, vol.1, Milano, 1997, p.677, ove si definisce l’ insider trading “ negoziazione di titoli , rispetto ai quali si è in possesso di informazioni privilegiate”. Cfr. anche la nota definizione di LANGEVOORT, Insider trading :Regulation, Enforcement and Prevention ,New York,1992, 4:”Insider trading is a term of art that refers to unlawful trading in securities by person who possess material nonpublic information about the company whose shares are traded or the market for its shares”.
2) Sul punto v. LINCIANO-MACCHIATI, Insider trading: una regolazione difficile, Bologna, 2002, che dedica tutto il secondo capitolo alla comparazione tra le discipline aventi ad oggetto l’insider trading nei maggiori paesi a capitalismo avanzato. In tale sede è mostrato chiaramente come la disciplina italiana esclusivamente penalistica appare come un’anomalia nel panorama internazionale.
3) Da sottolineare che detta azione civile spesso presenta nella pratica alcuni problemi di carattere probatorio, infatti l’insider ha la possibilità di eccepire che, data l’impersonalità delle contrattazioni di borsa, l’investitore/attore avrebbe comunque negoziato nel medesimo senso a prescindere dalla qualità di insider in capo alla controparte della negoziazione borsistica. Comunque, in base a quanto emerge dai casi Kardon vs. National Gypsium Co. (1946), Birnbaum vs. Newport Steel (1952), Blue Chips Stamps vs. Manor Drug Storse (1975). Sul punto v. G.E. COLOMBO, G.B. PORTALE, Trattato delle società per azioni, vol. X, pp. 258 ss.
4) Vedi la section 20A del Securities Exchange Act.
5) L’ordinamento britannico ad esempio conosce da sempre il ricorso alla sanzione penale e l’esperibilità dell’azione civile; e dal 2000 , tramite l’adozione del Financial Services and Markets Act è stato predisposto un sistema anch’esso imperniato sull’irrogazione della sanzione amministrativa adopera dell’ Autorità di vigilanza sui mercati finanziari, ossia la FSA (Financial Services Authority). Per un approfondimento della disciplina inglese è caldamente consigliata la consultazione di B. RIDER, K. ALEXANDER e L. LINKLATER, Market abuse and insider dealing, London, 2002.
6) V. tra tutti G.M FLICK, Insider trading: una tappa significativa- anche se controversa- della lunga marcia verso la trasparenza, in Rivista delle società, 1991; C. PEDRAZZI e altri, Manuale di diritto penale dell’impresa, Milano, 1998, p.467 ss., e la relazione CONSOB per l’anno 1996 riportata in LINCIANO- MACCHIATI, op. cit., p. 104.
7) V. NAPOLEONI, Insider trading e aggiotaggio su strumenti finanziari, in LACAITA, NAPOLEONI, Il Testo unico dei mercati finanziari, Milano 1998, p.179
8) v. BARTALENA, Insider trading in Trattato delle società per azioni a cura di G.E. COLOMBO e G.B. PORTALE, vol. x, I,p.299, secondo il quale la norma riguarda “tutti coloro che effettuano una prestazione a favore della società inquadrabile in un rapporto di lavoro autonomo o che sono legati ad essa da vincoli contrattuali , in forza dei quali esplicano sistematicamente la propria attività lavorativa”.
9) v. ad esempio BARTALENA, Insider trading , cit, p. 239; DI AMATO, op. cit., pp. 680ss.; MUCCIARELLI, Speculazione mobiliare e diritto penale, Milano, 1995, p.75
10) v. RIGOTTI, L’abuso di informazioni privilegiate in Intermediari finanziari, mercati e società quotate a cura di A. PATRONI GRIFFI, M. SANDULLI, V. SANTORO, Torino, 1999, pp. 1364ss.; M.L. ERMETES, Abuso di informazioni privilegiate e aggiotaggio su strumenti finanziari in a cura di RABITTI BEDOGNI, p.984
11) v. RIGOTTI, L’abuso di informazioni privilegiate, in Intermediari finanziari,mercati e società quotate a cura di A. PATRONI GRIFFI- M SANDULLI - V. SANTORO, Torino, 1999., p.1364, che ribadisce la difficoltà di stabilire una soglia di rilevanza della partecipazione ai fini dell’accesso ad informazioni inside, che possa quindi essere utilizzata come parametro per la punibilità dell’azionista
12) V. RIGOTTI, op.cit., p.1365; v. A. BARTALENA, op.cit., p.1995.
13) Da notarsi che invece la direttiva 89/592/CE all’art.2 faceva riferimento esplicito a coloro che dispongono di un informazione privilegiata “(…) a motivo della loro partecipazione al capitale dell’emittente”.
14) La “disclose or abstain rule” è stata introdotta per la prima volta dalla Rule 10b emanata dalla SEC nel 1942. e che è a tutt’oggi a fondamento di numerose discipline nazionali, v. M. L. ERMETES, Abuso di informazioni privilegiate e aggiotaggio su strumenti finanziari, in RABITTI BEDOGNI, Il Testo Unico della intermediazione finanziaria, Milano, 1998.
15) V. A. BARTALENA, Commento sub. artt. 180, in Commentario al testo unico della finanzia, a cura di P. MARCHETTI- L. A. BIANCHI, Milano, 1999. Per quanto concerne invece la problematica scaturente dalle operazioni di acquisto di azioni proprie, v. F. GRANDE STEVENS, Questioni in tema di insider trading e di compravendita di azioni proprie, in Rivista delle Società, 1991.
16) L’esempio più noto è quello del soggetto che, avendo in programma il lancio di un’OPA, inizia a rastrellare i titoli oggetto di essa prima di rendere nota la sua decisione, v. RIGOTTI, op. cit., p.1370,che afferma che sarebbe invece punibile l’acquisto di titoli diversi da quelli oggetto dell’OPA. GALGANO, Gruppi di società, insider trading, OPA obbligatoria in Contratto e impresa, 1992, p.637ss. con riferimento all’acquisto di azioni proprie, sostiene parimenti che non può considerarsi privilegiata l’informazione che provenga dallo stesso soggetto che la utilizza. La direttiva 89/592/CE sembra avvallare tale principio al suo undicesimo considerando ove si sancisce che “poiché l’acquisizione o la cessione di valori mobiliari implica necessariamente una decisione preliminare di acquisire o di cedere da parte della persona che procede ad una di queste operazioni, il fatto di effettuare questo acquisto o cessione non costituisce di per sé una utilizzazione di un’informazione privilegiata”.
17) V. BARTULLI-ROMANO, Sulla disciplina dell’insider trading (l.17 maggio 1991 n. 157), in Giurisprudenza Commerciale, 1992, p. 663 ove si parla di “qualsiasi movente, professionale o personale, che abbia una comprensibilità sociale”.
18) Cfr. RIGOTTI, op.cit., p. 1374, che mostra qualche perplessità in merito alla non riproposizione del divieto in capo ai tippees di dare consigli ai terzi, rilevando che una simile condotta sia assimilabile all’insider trading in fatto di lesività.
19) L’attuale disciplina colma poi anche l’aporia del dettato della l. 157/91 che non annoverava tra i tippees i soggetti resi edotti da chi disponesse delle informazioni privilegiate a motivo della propria qualità di azionista, soggetti che di fatto erano ingiustamente esclusi dall’area della punibilità.
20) V. SEMINARA, Commento sub. art. 180, in Il Testo Unico della Finanza a cura di G. F. CAMPOBASSO, Milano 2002, p. 1457 che ritiene il requisito finalizzato ad escludere “le voci, le congetture, le conoscenze non ancora cristallizzatesi, nonché quei dati ed elementi in suscettibili di assumere la valenza di un’informazione e la cui repressione aprirebbe varchi ad un’estrema incertezza”.
21) Se così fosse, infatti, un suo abuso non genererebbe una situazione di insider trading ma potrebbe integrare una differente tipologia di condotta, detta scalping, che è propria di chi , dopo aver diffuso una propria autorevole valutazione su uno strumento finanziario, si approfitta del credito ad essa accordato dal pubblico per porre in essere operazioni speculative per conto proprio.
22) Proprio su questa distinzione si basa il gun jumping, fenomeno peculiare di quei soggetti che, in quanto primi destinatari della divulgazione di una notizia, pongono in essere operazioni sulla base di essa quando sia già stata resa pubblica, ma non sia ancora pervenuta alla stragrande maggioranza degli investitori. Tale fenomeno non è disciplinato nel nostro ordinamento, per una sua collocazione nell’ordinamento inglese,v. RIDER – ALEXANDER – LINKLATER, op. cit., p. 15.
23) V. NAPOLEONI, Insider trading e aggiotaggio su strumenti finanziari, in Il Testo Unico dei mercati finanziari a cura di L. LACAITA – V. NAPOLEONI, Milano , 1998., p. 192, che sostiene che , data la monetizzabilità in termini tutt’altro che allarmanti per uno speculatore di borsa della pena detentiva, essa può essere facilmente rubricata come “voce di rischio” o “di costo” dell’operazione incriminata.
24) V. SEMINARA, op. cit.,p. 1461; v. NAPOLEONI, op. cit., pp.191-192.
25) Entrambe le espressioni tra virgolette sono di SEMINARA, op. cit., p. 1452, il quale propende per l’accezione più ampia, mutuata dalla disciplina in tema di usura ex. Art. 644, 6°cc.p.
26) NAPOLEONI, op.cit., p. 193.
27) V. per tutti CONDEMI, commento sub 182, in ALPA-CAPRIGLIONE, op. cit.,pp. 1677-1678.
28) v. BARTALENA,commento sub 182 in MARCHETTI-BIANCHI, op. cit., p. 2020; cfr. pure SEMINARA, commento sub 182 in CAMPOBASSO, op.cit., p.1474, che osserva come “i modesti limiti in cui in concreto può scendere la pena principale nei reati di cui agli artt. 180 e 181 risultano quindi bilanciati dall’estrema gravosità delle pene accessorie, al punto di determinare un innalzamento di esse al rango di pene principali”.
29) SEMINARA, ult. op. cit., p. 1475; CONDEMI, op.cit., p. 1680.
30) Per una comparazione tra le attività e i poteri accordati dai maggiori paesi a capitalismo avanzato alla propria autorità di vigilanza si consiglia di vedere diffusamente LINCIANO-MACCHIATI, op.cit., cap. II.
31) V. NAPOLEONI, op. cit., p.199, il quale a sua volta cita ZANNOTTI, La tutela penale del mercato finanziario, Torino, 1996, p. 106, secondo il quale “i poteri (accordati)…non attribuiscono alla Consob una incisiva e rapida capacità di intervento, necessaria per indagini su un fenomeno così particolare come l’insider trading, ove la tempestività nella ricerca dei fatti e documenti deve essere quantomeno pari alla rapidità con la quale tale tipo di operazioni vengono effettuate”. Cfr. anche SEMINARA, commento sub art.185, in CAMPOBASSO, op.cit., p. 1480, secondo il quale “l’esperienza srtraniera aveva da tempo all’evidenza dimostrato come la via maestra per un accrescimento dell’effettività del divieto di insider trading corre lungo un sostanzioso rafforzamento, in termini di incisività e di tempestività, dei poteri di indagine specificamente attribuiti alla Consob”.
32) Per un efficace sunto sui lavori parlamentari prodromici del TUF, v. LINCIANO-MACCHIATI, op. cit., pp. 99- 101.
33) L’art. 8, 1°c. della l. 157/91, delegava alla Consob “ gli atti necessari alla verifica di eventuali violazioni delle norme di cui agli articoli 2 e 5” a tal fine la commissione poteva valersi dei poteri di cui disponeva ai sensi dell’ art. 3, l. 216/74 come sostituito dall’art. 5 l. 281/85, nonchè della collaborazione delle pubbliche amministrazioni e richiedere ai soggetti di cui ai medesimi artt. 2 e 5 e agli intermediari coinvolti, qualsiasi informazione che apparisse necessaria. Il comma 2 poi prevedeva la pena dell’arresto fino a tre mesi o un’ammenda da due a quaranta milioni (a meno che il fatto non configurasse un più grave reato) per coloro tra i soggetti citati che non ottemperassero tempestivamente alle richieste della Consob o ne ritardassero od ostacolassero le funzioni. La disposizione che però appariva di maggiore rilievo era quella posta in chiusura del 1° comma, ove si sanciva che “la denuncia di cui agli artt.361 e 362 del codice penale deve essere proposta esclusivamente al presidente della Consob”. Analogamente il comma 5 prevedeva che qualora la notitia criminis fosse stata acquisita diversamente, l’autorità giudiziaria procedente avrebbe avuto il dovere di informare tempestivamente il presidente della Consob, il quale in ogni caso, ai sensi del comma 3, aveva il dovere, qualora fossero emersi elementi che avvallassero il compimento dei reati in questione, di trasmettere al pubblico ministero competente, tramite una relazione motivata, la documentazione raccolta nell’ambito della propria attività istruttoria. Perciò la ad ogni notizia ricevuta o fatto scoperto conseguiva un obbligo della commissione ad approntare le indagini necessarie al riscontro di qualsiasi elemento che facesse presagire l’integrazione del reato. Si poteva affermare perciò che la Consob fungesse da “filtro tecnico delle notitiae criminis”, volto ad evitare che potessero essere intrapresi procedimenti del tutto infondati o pretestuosi, che avessero una mera finalità di destabilizzazione dei corsi di mercato.
34) Cfr. G. RANDISI, commento sub 185, in RABITTI BEDOGNI,op. cit., p.1022; BARTALENA, commento sub 185-187, in MARCHETTI-BIANCHI,op.cit.,pp. 2030-2031.
35) Giova ricordare che i dipendenti Consob ai sensi dell’art.4 TUF “nell’esercizio dell funzioni di vigilanza sono pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di riferire esclusivamente alla Commissione tutte le irregolarità constatate, anche quando integrino ipotesi di reato”.v .BARTALENA, op. ult. cit., p.2031, che precisa che tale obbligo di rapporto non vale nei confronti dei dipendenti di altre amministrazioni della cui opera la Consob si è avvalsa.
36) V. . RANDISI, op. cit. , p.1022.
37) Cfr. BARTALENA, op..ult. cit., p. 2027 che intravede la possibilità di una lettura espansiva, secondala quale tra i soggetti vigilati sono inclusi tutti coloro che siano sottoposti ad indagine.
38) BARTALENA, op. cit. ,p.2033.