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Il concorso dell’extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione. La verifica del dolo.

[Nota a Cassazione Penale, 16 gennaio 2014, n.1706, sez. V – Pres. FERRUA, Rel. BRUNO]

Il concorso dell’extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione. La verifica del dolo.

Con la recente sentenza n. 1706 del 16/1/2014, la Corte di Cassazione torna ad affrontare il dibattuto tema della verifica dell’elemento psicologico in capo all’extraneus concorrente nel reato di bancarotta fraudolenta per distrazione ex art. 216 della legge fallimentare.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, che ne aveva confermato la penale responsabilità, proponeva ricorso per Cassazione, tra gli altri, l’imputato B. Questi, nella qualità di amministratore di fatto della società E.C.C. e S. Srl,  veniva condannato per reati fiscali e per i reati di bancarotta fraudolenta documentale e bancarotta fraudolenta per distrazione in concorso con  M. L., amministratore della poi fallita società L.S. Srl.
Con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta per distrazione ed, in particolare, al concetto giuridico di distrazione, in questa sede appare sufficiente affermare che esso consiste in ogni atto, diverso dalla dissipazione e dall’occultamento, mediante il quale l’imprenditore fa uscire dal proprio patrimonio, senza contropartita, o senza contropartita reperibile, o fa uscire, comunque, dal patrimonio assoggettabile in concreto a procedura esecutiva, una parte dei propri beni, danneggiando in tal modo i diritti dei creditori.
Nel caso in esame, la Suprema Corte, confermando quanto stabilito dai Giudici di merito, individua la condotta distrattiva posta in essere dall’extraneus B., in concorso con M.L., nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti o soggettivamente false, finalizzate a fornire una formale copertura agli ingenti esborsi di denaro da parte della poi fallita società L.S. Srl, realizzando una distrazione del patrimonio sociale in danno dei creditori.
La Corte di Cassazione, nell’operare una valutazione della suindicata condotta del ricorrente B., in relazione all’ipotesi di concorso nella bancarotta fraudolenta per distrazione, si sofferma ad analizzare l’elemento psicologico in capo all’extraneus.
La Corte, in motivazione, individua due elementi cui deve rivolgersi il coinvolgimento psicologico del soggetto extraneus, in termini di dolo, così come richiesto dalla norma contenuta nell’art. 216 della Legge fallimentare.

Da un lato la volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell’intraneus (amministratore della società poi fallita), ovvero la volontà di incidere materialmente o moralmente nell’intento dell’intraneus, secondo i canoni giuridici previsti dall’ordinamento in materia di concorso nel reato.

Dall’altro lato, la necessaria consapevolezza che la propria condotta determini un depauperamento del patrimonio sociale in danno al ceto creditorio, realizzando l’evento del reato de quo.
Pertanto, così come argomenta la Corte, in sede di valutazione probatoria, ai fini di un giudizio di responsabilità in termini di concorso dell’extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, sarà necessario raggiungere la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, di tali due elementi. In tal senso, i Giudici seguono e confermano quanto già sostenuto dalla Corte di Cassazione in diverse e recenti pronunce (tra le altre, Cass. Pen. Sez. V, sentenza n. 16579 del 29/4/2010; Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 20829 dell’11/1/2013).
Nel caso in esame, la Suprema Corte, aderendo a quanto affermato dai Giudici di merito, ritiene provato il dolo dell’extraneus, nei termini di volontarietà e consapevolezza su descritti, sulla base delle condotte contestate a B. negli altri capi d’imputazione. Ovvero, l’illecita emissione di fatture oggettivamente o soggettivamente false da parte della società amministrata dal ricorrente B., così da giustificare la fuoriuscita dalle casse della poi fallita società di ingenti somme di denaro in favore dello stesso B, realizzando la distrazione del patrimonio sociale.
Siffatta condotta illecita integra, secondo la Corte, gli estremi della volontarietà della condotta di apporto a quella del fallito, nonché della consapevolezza dell’extraneus che la stessa determini un depauperamento del patrimonio sociale in danno ai creditori.
La Corte, completando l’analisi dell’elemento psicologico, afferma che la prova del dolo dell’extraneus non richiede la specifica conoscenza da parte di questi del dissesto economico della società. Ne consegue, affermano gli Ermellini, “che ogni atto distrattivo assume rilievo ex art. 216 della Legge fallimentare, in caso di fallimento, indipendentemente dalla rappresentazione di quest’ultimo, il quale non costituisce l’evento del reato che, invece, coincide con la lesione dell’interesse patrimoniale della massa, posto che, se la conoscenza dello stato di decozione costituisce dato significativo della consapevolezza del terzo di arrecare danno ai creditori, ciò non significa che essa non possa ricavarsi da diversi fattori” (nel caso in esame l’emissione di fatture per operazioni inesistenti).
Con tali argomentazioni la Corte ritorna sul tema, altrettanto dibattuto, della natura della sentenza dichiarativa di fallimento.

In questa sede ci si limita a sottolineare quanto sostenuto dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, secondo cui, il fallimento integra elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta prefallimentare. Tuttavia, lo stesso orientamento non considera il fallimento quale evento in senso naturalistico del reato di bancarotta e, pertanto, non deve essere conseguenza causalmente collegata alle condotte tipiche, né oggetto di una volizione specifica da parte del soggetto agente .
A conclusione della disamina, si segnala a riguardo anche un orientamento, seppur minoritario, diffusosi nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo il quale affinché sia provato il dolo dell’extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta è necessario che questi abbia agito, altresì, con la consapevolezza dello stato di generica difficoltà economica della società poi fallita. In assenza di tale conoscenza e consapevolezza, l’agente non è nella condizione di effettuare un giudizio concreto e serio sulle conseguenze della propria condotta dannose per i creditori (Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 16000 del 26/4/2012).

Tale opposto orientamento giurisprudenziale rimane, tuttavia, minoritario.


(Carlo PACILEO)

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