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Il d.lg. 231 tra tecniche di tutela ed esigenze di riforma

Articolo a firma della dott.ssa Marta Silano

1. La natura giuridica della responsabilità dell’ente. Vista la mole considerevole di analisi e interpretazioni sul punto, non c’è dubbio che il nodo cruciale nella disciplina della responsabilità dell’ente stia nel risolvere definitivamente il problema della sua natura giuridica. La dispersione della dottrina, gli approcci parziali e tentennanti, nascono già dalla lettura della Relazione di accompagnamento al decreto, che chiarisce alcuni punti, ma in generale impedisce una ricostruzione semplice e lineare del tema in esame. Dalla Relazione infatti si evince che il legislatore, pur essendo consapevole dei tempi ormai maturi per il superamento del “presunto sbarramento dell’art.27 Cost.” e che, pertanto, “non si sarebbero incontrate insuperabili controindicazioni alla creazione di un sistema di vera e propria responsabilità penale degli enti”, ha tuttavia preferito non introdurre ex abrupto tale soluzione, preoccupandosi prima di tutto che il nuovo decreto avesse un’accoglienza positiva nel panorama giuridico italiano. Da qui l’opzione, all’apparenza tranquillizzante, per il sistema di tipo amministrativo, o meglio “penale-amministrativo”, che attualmente ha i suoi principi generali nella L. 689 del 1981. Questa presa di posizione, tuttavia, è immediatamente contraddetta nello stesso testo, laddove vengono ammesse le “divergenze” della responsabilità ex d.lg. 231 rispetto a quella che è stata formalmente scelta come sua collocazione sistematica; divergenze derivanti da quelle “ineludibili” esigenze di massima garanzia ed efficacia preventiva che in ambito amministrativo non avrebbero di certo potuto essere realizzate in modo adeguato. Si apre così la strada alla prospettazione di un tertium genus di responsabilità che, coniugando i tratti essenziali dei tradizionali sistemi punitivi, sfoci in un “diritto sanzionatorio” più flessibile ed efficace nella repressione del meccanismo complesso della criminalità economica. Asseverare una volta per tutte la cittadinanza di un diritto punitivo tout court nel nostro ordinamento farebbe la soddisfazione della nostra dottrina di tendenza più spiccatamente europeista . Si tratterebbe, tuttavia, di una soluzione ibrida, appagante magari nel primo momento, ma di difficile ricostruzione nei suoi elementi strutturali, non essendo evidenziabile, allo stato attuale, neanche l’elaborazione di un nucleo razionale di questo prospettato terzo sistema. Per di più, si sottolinea la non opportunità, sul piano dogmatico ma anche legislativo, di fondere in un originale unicum le tradizionali categorie degli illeciti penali e amministrativi, le quali “sono ormai caratterizzate nel nostro ordinamento giuridico da un preciso rapporto di alternatività” . Osservazioni di questo tipo, unite alla già sottolineata consapevolezza, nel legislatore delegato, del valore di “air bag dell’impatto sociale” in cui è stato inteso il rinvio al sistema di natura amministrativa, ci portano a concludere che, con buona probabilità, col d.lg. 231 ci troviamo di fronte al sostanziale riconoscimento della responsabilità penale della persona giuridica. Anticipando brevemente spezzoni dell’analisi del decreto legislativo, che si farà più approfonditamente nei successivi paragrafi, notiamo infatti che: - la responsabilità dell’ente è diretta, e tale qualità è sottolineata dalla previsione della sua autonomia (art.8). Si ha un superamento definitivo non solo dell’impostazione del codice penale dell’obbligazione civile e sussidiaria di garanzia ma pure dello schema presente nella 689/1981, che all’art.6 prevede casi di responsabilità solidale applicabili anche agli enti. E’ stato osservato, in relazione a detto art.6, che “attribuendo alla societas una mera obbligazione solidale, peraltro con diritto di regresso per l’intero nei confronti dell’autore della violazione” si finisce per ripetere completamente lo schema del codice penale, poichè “ci si limita ad accollare all’ente una semplice forma di garanzia per il pagamento della sanzione pecuniaria” ; - l’illecito dell’ente è stato costruito come comprensivo dei suoi elementi oggettivi e soggettivi (artt.5, 6, 7), ritenendosi indefettibile, per la responsabilità, la sussistenza della colpevolezza, nella sua più attuale concezione normativa; - l’accertamento dell’illecito si svolge ad opera di un giudice e all’interno di un processo penale (artt.34 ss.), con l’applicazione delle garanzie e dei principi di questo sistema, tanto che da più parti si insinua addirittura la sostanziale obbligatorietà dell’azione di responsabilità ex d.lg. 231; - si prospettano delle sanzioni, la cui entità è misurata in base ad una più razionale valutazione degli stessi indici di cui all’art.133bis c.p.(art.11), tra cui spicca “il grado di responsabilità” dell’ente. Inoltre, il sistema sanzionatorio delineato appare complessivamente idoneo a perseguire non solo finalità di mera deterrenza o prevenzione generale, ma pure di prevenzione speciale: l’applicazione delle misure interdittive, in particolare, costituisce un efficiente strumento per eliminare il rischio di recidiva. Qualche dubbio, in realtà, viene portato avanti da una dottrina, pur aperta a una lettura meno rigida dei nostri principi costituzionali, con riferimento ad una persistente incompatibilità di ogni sanzione applicata a un ente con la finalità rieducativa. Le motivazioni sono quelle tradizionali, e già incontrate, relative al substrato di umanità ritenuto necessario per l’interiorizzazione della regola di condotta conforme al diritto . Qui si è voluto riprenderle, paradossalmente, per omaggio a questa stessa dottrina che, partendo da siffatti presupposti, non giunge però a sconfessare la necessità di responsabilizzare la persona giuridica sul piano criminale. Si ritiene, infatti, che l’“aggiustamento” opportuno debba riguardare non la natura della responsabilità dell’ente, ma la tipologia delle sanzioni, e pertanto si svilupperà non “lo scarsamente plausibile tertium genus di un più ampio diritto punitivo” ma “il terzo binario del diritto penale criminale, accanto alla pena ed alla misura di sicurezza” . 2. I principi generali della normativa. La corresponsabilizzazione della persona giuridica è stata concepita nel rispetto di alcuni principi generali, ritenuti indefettibili non soltanto per il sistema penale, ma anche per quello amministrativo o “penale-amministrativo”. Così, l’art.2 del decreto legislativo afferma decisamente il principio di legalità (nelle sue accezioni di riserva di legge, tassatività e irretroattività), ricalcando il disposto dell’art.1 del codice penale e pure dell’art.1 della l. 689/1981, entrambi traduzione della riserva assoluta di cui all’art. 25 comma 2 Cost. Ora, alcuni operatori del diritto non ritengono pacifica l’assunzione dell’attuale disciplina dell’ente nell’ambito del sistema penale e para-penale; nel caso, da essi previsto, dovesse parlarsi di responsabilità stricto sensu amministrativa, la norma guida in tema di riserva di legge sarebbe non più l’art. 25, ma l’art. 23 Cost. Le conseguenze della riserva relativa in esso prevista sarebbero quelle di una difficile cogestione della responsabilità degli enti tra potere legislativo e potere esecutivo. Andando avanti nell’analisi dei principi generali recepiti dal d.lg. 231, all’art. 3 si disciplina la successione delle leggi nel tempo, meccanismo derivato dal corrispondente art.2 del codice penale, e indicativamente sconosciuto alla legge di depenalizzazione (L. 689/81). L’estensione di siffatto meccanismo di garanzia all’ambito dell’illecito del soggetto collettivo è stata ritenuta dal legislatore del 2001 opportuna a causa della “incisività delle nuove sanzioni, tale da meritare all’ente la stessa disciplina di favore prevista nei confronti dell’imputato persona fisica” . Ancora, un accenno particolare merita l’abolitio criminis, ipotesi che scatta quando “viene meno” il reato da cui dipende la responsabilità collettiva, oppure quando viene abrogata la norma speciale che collega l’illecito dell’ente a quello dell’individuo. Inoltre, la responsabilità della persona giuridica viene meno anche in caso di depenalizzazione del reato presupposto; previsione, quest’ultima, non completamente giustificabile poichè, visto che vi è ancora un giudizio di disvalore della condotta di entrambi i soggetti implicati, sarebbe stata più opportuna una soluzione normativa in termini di continuità relativamente alla perseguibilità della persona giuridica. 3. I soggetti. Il decreto in esame ben si esprime quando parla di responsabilità degli enti. Con questa definizione, infatti, si fa riferimento non soltanto a quelli forniti di personalità giuridica, ma anche a quelli che ne sono sprovvisti, e che, pertanto, risultano inclusi nel novero dei soggetti potenzialmente responsabili . La caratteristica di detti enti, disciplinati agli artt. 36 ss. del c.c. è notoriamente la carenza di autonomia patrimoniale perfetta, il che ha come conseguenza il coinvolgimento dei patrimoni individuali dei soci nel caso di responsabilità del soggetto collettivo. Questa rischiosa conseguenza è stata opportunamente evitata col decreto 231, grazie al disposto dell’art.27, nel quale si specifica: “Dell’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria risponde soltanto l’ente con il suo patrimonio o con il fondo comune” . Del resto, come evidenziato nella stessa Relazione di accompagnamento al decreto, sarebbe stato “ingiustificato creare vere e proprie zone d’immunità” attorno a questi soggetti che, “potendo più agevolmente sottrarsi ai controlli statali, sono a ‘maggior rischio’ di attività illecite” . Andando avanti nell’analisi, si rileva l’esclusione dal novero degli enti perseguibili de: - lo Stato; - gli Enti pubblici territoriali; - gli Enti pubblici non economici (sono invece compresi quelli che svolgono attività economica, in quanto agiscono iure privatorum, cioè senza potestà pubblica); - gli Enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (tra cui anche sindacati e partiti politici). Nonostante la minuziosità del legislatore, dovuta a preoccupazioni che già si è avuto modo di riportare , esiste una vasta zona grigia inerente quei soggetti che non appaiono espressamente nè esclusi nè compresi: quest’osservazione vale, soprattutto, per gli Enti -pubblici oppure privati- che svolgono un pubblico servizio. Per trovare una loro adeguata sistemazione è d’ausilio indispensabile, ancora una volta, la lettura della Relazione. La Commissione Lattanzi ha ritenuto che il Parlamento, nella legge delega, avrebbe optato per un catalogo di reati di natura squisitamente economica. Di conseguenza, vanno esentati dalla responsabilità di cui al d.lg. 231 gli enti pubblici che curano interessi pubblici , poichè essi non sono mossi da finalità lucrative; il contrario di ciò che accade per quei soggetti privati che (in virtù di concessione, convenzione etc.) curano medesimi interessi, perchè per questi “la finalità di natura pubblicistica non esclude il movente economico” . A sostegno di questa tesi è stato evidenziato che, se si volessero esimere dalla responsabilità amministrativa pure i soggetti privati che svolgono servizi pubblici, avrebbe ben poco senso una disposizione come la lettera L) n.3) dell’art.11 della legge delega. Quivi si legge che, laddove l’ente sia colpito da interdizione dall’esercizio dell’attività, questa può essere proseguita, previa nomina di un commissario, “quando la prosecuzione dell’attività è necessaria per evitare pregiudizi ai terzi”. E’ chiaro che attività di tal genere può essere, nella generalità dei casi, soltanto quella che costituisce espletamento di un pubblico servizio (si pensi ai trasporti, alla sanità etc.). 4. I criteri di ascrizione dell’illecito all’ente. Nell’impianto del decreto 231 i criteri di imputazione della responsabilità alla persona giuridica (artt.5, 6 e 7) non riguardano soltanto il profilo oggettivo, vale a dire l’individuazione dei soggetti che agendo per conto dell’ente sono legittimati a coinvolgere la sua sfera giuridica, ma si estendono alla richiesta di un quid di natura soggettiva. Ciò sta a significare che il legislatore, costruendo, col concetto di colpa d’organizzazione, l’elemento psicologico dell’illecito dell’ente, ha escluso una sua attribuzione secondo i canoni della responsabilità oggettiva. Tuttavia, non pochi dubbi sorgono relativamente al ritorno di quest’ultima nell’applicazione della normativa. Per rendercene conto, è sufficiente una breve analisi dei criteri a cui è dedicato questo paragrafo. A) Criteri oggettivi. L’illecito che coinvolge l’ente deve essere stato commesso, dai soggetti che in seguito si diranno, “nell’interesse o a vantaggio” (art.5) dello stesso. Nell’intento della Commissione Lattanzi, il termine interesse va a significare “l’agire finalistico a favore di”, che si realizza anche quando la società non abbia ottenuto alcun risultato utile dalla condotta. I primi problemi applicativi di questa disciplina sorgono nel processo, quando il giudice deve valutare (secondo il metodo della “prognosi postuma”) se l’azione criminosa dovesse intendersi ex ante (cioè prima della sua consumazione) come rivolta a favorire l’ente. Si può immaginare quale probatio diabolica sia per la pubblica accusa la dimostrazione di un atteggiamento tutto interno al reo, qual è il comportamento finalizzato. Ma una perplessità ancora più grave sorge nel rilevare che l’ente, in casi del genere, è ritenuto responsabile in base a un mero coefficiente psicologico del reo; e allora bisogna ammettere che tutti gli sforzi del legislatore si vanno ad infrangere su un criterio di attribuzione che, nella pratica, si palesa come di responsabilità assolutamente oggettiva . Vi sono inoltre delle ipotesi in cui il presupposto dell’interesse appare assolutamente inutilizzabile: succede nell’ambito del reato colposo, in cui è logico chiedersi “se non si vuole l’evento dannoso o pericoloso, come si può volerlo ‘nell’interesse’ della persona giuridica?” . Più semplice è il significato di vantaggio (benefit), che si sostanzia nel generico profitto (anche non patrimoniale) che la società ricava dal reato, e che nel giudizio viene individuato secondo la più concreta ricostruzione ex post factum. Una osservazione, però, va fatta anche in questa sede. L’ente non risponde nel caso in cui abbia ottenuto un vantaggio da un illecito commesso indipendentemente e talvolta anche contro il suo interesse: è quanto si ricava dal comma 2 dell’art.5, secondo il quale la responsabilità ex d.lg. 231 è esclusa laddove l’autore materiale abbia agito “nell’interesse esclusivo o proprio o di terzi”. E’ quindi ristretta la possibilità di applicazioni del criterio del vantaggio indipendentemente da quello dell’interesse. Più in generale, come si evince dai primi commenti al decreto legislativo, utilizzare i due criteri in modo congiunto, cumulativamente, sarebbe stato più razionale e sicuramente molto più efficace. L’ascrizione della condotta all’ente sotto il profilo oggettivo si completa, poi, nell’individuazione dei soggetti che si ritengono idonei a provocare la corresponsabilizzazione della società in conseguenza delle loro azioni. L’art.5 individua in realtà due tipologie di rapporti funzionali ente-individuo, ricostruite -soprattutto la prima- in chiave di immedesimazione organica; ad esse è poi ricollegata una differenziata disciplina di possibile esclusione della responsabilità. Secondo il primo tipo di rapporto, l’ente è responsabile qualora il reato sia commesso da un soggetto “in posizione apicale” nell’organizzazione, che può essere il rappresentante, l’amministratore, il direttore della società o di una sua unità dotata di autonomia funzionale e finanziaria (es: uno stabilimento); sono altresì compresi quei soggetti che ricoprono dette cariche senza un’espressa attribuzione, id est “di fatto”. La stessa Relazione al decreto, però, sottolinea la necessità della coesistenza, in capo al medesimo soggetto, di poteri di gestione e controllo (rimanendo fuori dalla previsione normativa, ad esempio, i sindaci); questo perchè, evidentemente, si deve rendere più incisivo il monitoraggio dell’operato di quegli individui che abbiano effettivamente “un penetrante dominio sull’ente” . La seconda tipologia di soggetti contemplata è quella dei “sottoposti alla direzione o vigilanza”, vale a dire gli individui che sono legati agli “apicali” da un vincolo di subordinazione (non solo dipendenti, ma anche agenti, concessionari etc). Questa previsione è indispensabile in una prospettiva politico-criminale, perchè tiene conto dell’attuale alto livello di frammentazione del procedimento operativo all’interno delle imprese; la responsabilizzazione dei soli vertici dell’organizzazione sarebbe stata insufficiente e discriminatoria. B) Criteri soggettivi. Agli artt. 6 e 7 del decreto si può leggere la disciplina di elcune esimenti a favore dell’ente, opportunamente diversificate in relazione al “tipo” di individuo che ha commesso il reato. Nel caso di condotta illecita di soggetto “apicale” (art.6), l’ente non risponde se prova che: - abbia, antecedentemente al reato, adottato ed applicato in maniera efficace un programma aziendale di gestione e controllo, idoneo alla prevenzione di illeciti dello stesso tipo di quello perpetrato; - la vigilanza sul funzionamento e l’aggiornamento del programma sia affidata ad un organismo interno dotato di sufficiente autonomia e potere d’iniziativa, e tale organismo non sia venuto meno ai suoi doveri per omissione o negligenza; - i soggetti che hanno commesso il reato lo abbiano fatto eludendo con frode il complesso meccanismo di gestione descritto. Invece, nel caso di illecito commesso dal sottoposto (art.7), l’ente va esente da responsabilità se la condotta criminosa sia stata possibile per l’inosservanza degli obbighi di direzione e vigilanza, che si presumono osservati quando, come sopra, sia stato attuato prima del fatto un modello organizzativo di gestione legale e controllo preventivo. In questa seconda ipotesi, pertanto, viene applicata la normale regola probatoria: sarà compito del P.M. dimostrare la negligenza nella vigilanza e la eventuale non adozione - o non efficace adozione - del programma di gestione. Al contrario, quando il reato sia stato frutto di un’attività degli “apici”, che presumibilmente sono dotati di un più pregnante potere di esprimere la politica e le finalità dell’ente, la sua corresponsabilità sembra essere nei fatti; quindi, sta ai legali della società dimostrare la sua estraneità agli eventi, in relazione ai richiamati punti dell’art.6. L’applicazione della regola dell’ “inversione dell’onere della prova” fa dunque scattare, in casi del genere, la presunzione di colpevolezza dell’ente; concetto aborrito dal nostro sistema penale, e soprattutto dalla Costituzione (art. 27 c.2), che si preoccupa al contrario di garantire all’imputato la qualità di innocente sino alla sentenza di condanna definitiva. E’ chiaro che, se si volesse in via definitiva fare rientrare la responsabilità ex d.lg. 231 in quella strettamente penale, questa presunzione di colpevolezza diventerebbe uno scomodo “incidente” legislativo con cui fare i conti. Allo stato attuale delle analisi e interpretazioni del decreto, ciò che preme rilevare è che, presunta o meno, la colpevolezza della persona giuridica è un presupposto indefettibile per la sua perseguibilità. I redattori del testo normativo, ritenendo che ad esso dovessero estendersi “le imprescindibili garanzie del diritto penale” ,vi hanno giustamente compreso il principio di colpevolezza, costruito però nella sua attuale concezione normativa, vale a dire come rimprovero all’ente di una distorta politica aziendale e di una deviazione -volontaria o dovuta a negligenza- dalla gestione legale del proprio patrimonio finanziario e funzionale. Il fondamentale criterio soggettivo per l’imputazione dell’illecito alla persona giuridica è dunque questa peculiare colpa d’organizzazione. La ricostruzione del criterio e del suo funzionamento, che moltissimo deve all’esperienza nordamericana dei “compliance programs”, ruota tutta attorno a due poli: l’adozione razionale ed effettiva del complesso sistema interno di governance e, di conseguenza, la due diligence dell’ente nel curarne e vegliarne l’operatività. In queste pagine si sta tanto parlando di “adozione” del programma; in realtà, gli articoli del decreto non ne prevedono una specifica procedura, lasciando nel dubbio se sia più opportuno che essa sia guidata dall’assemblea dei soci o dal consiglio di amministrazione. In parte il difetto di determinatezza si può giustificare - ed è stato fatto - in virtù dell’esigenza che il programma di gestione risulti sufficientemente personalizzato, tenendo perciò conto pure dei peculiari processi deliberativi esistenti in seno all’ente. Però, non si può nascondere che l’eccessiva genericità del legislatore delegato rischia di far nascere numerosi conflitti tra giudici ed enti al momento di stabilire la validità e quindi il valore esimente del programma adottato. Ciò è di particolare evidenza nella prevista (art.6 comma 3) possibilità che i modelli comportamentali siano adottati sulla base di codici etici predisposti dalle associazioni di categoria; il procedimento in questione richiede che tali progetti vengano sottoposti a una procedura concertata, guidata dal Ministero della Giustizia, di “validazione” della loro idoneità alla prevenzione dei reati. La domanda si pone in questi termini: può il giudice ritenere “non idoneo” un programma di gestione approvato dai competenti ministri? Per la maggior parte della dottrina la risposta è affermativa : l’approvazione preventiva non sembra sufficiente ad accertare una volta per tutte l’adeguatezza del modello comportamentale adottato. La vera partita, in questo caso, si gioca sul piano della ricerca dell’effettività di quello. Effettività, difatti, non vuol dire validità a priori, bensì verifica sul campo della “bontà” delle procedure di gestione e controllo formalizzate; vuol dire, ancora, come prevede il comma 4 dell’art.7 d.lg., un corredato sistema sanzionatorio per le violazioni dei precetti sostanziali; infine, con effettività si vuol intendere altresì la dinamicità della struttura e del funzionamento del programma. Questo deve essere infatti concepito “non come un programma statico adottato dall’ente una volta per tutte e poi pietrificato nella sua configurazione originaria, bensì come un sistema dinamico, in continua evoluzione e sempre perfettibile”, modificabile, ad esempio, a causa di una rilevata inoperatività oppure dei mutamenti struttural-funzionali della persona giuridica a cui il modello accede. In conclusione e riassumendo, per effettività di un sistema di “corporate governance” intenderemo: personalizzazione delle previsioni del modello, sanzionabilità delle violazioni allo stesso, dinamicità dei precetti e delle strutture operative approntate. Passando ora ai “contenuti” minimi del programma aziendale in esame, che il decreto enumera al comma 2 dell’art.6 (lettere da a ad e), in questa ristretta sede si possono analizzare soltanto alcune tendenze operative . Ad esempio, è interessante dire qualcosa di più su istituzione e funzioni dell’Organismo di vigilanza (art.6, comma 1, lettera b), anche detto, all’americana, “Compliance Officer”. I requisiti che esso deve avere si possono sintetizzare in: - professionalità dei soggetti che lo compongono, che devono possedere qualificate conoscenze e una sufficiente pratica in materia ispettiva e consulenziale; - internalità alla struttura aziendale, e con ciò si nega la possibilità di delegare la funzione di vigilanza a soggetti esterni, quali, ad esempio, il collegio dei revisori; - autonomia ed indipendenza nel contesto gerarchico dell’organizzazione, soprattutto rispetto all’organo gestorio che lo nomina, poichè potrebbe accadere che l’attività ispettiva debba rivolgersi proprio contro gli amministratori. Questo ultimo, duplice requisito sembra essere a rischio quando si prevede che, negli “enti di piccole dimensioni”, i compiti di vigilanza e controllo possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente. Se la soluzione è ragionevolmente basata sull’osservazione che “per tali enti l’onere derivante dall’istituzione di un organismo ad hoc potrebbe non essere economicamente sostenibile” , forte è però il pericolo di un “conflitto di interessi” poichè lo staff dirigenziale diventa in pratica “vigilante” di se stesso. I “compiti” dell’Organismo sono, in linea di massima, costituiti dalla vigilanza sul funzionamento dei modelli e dal loro eventuale aggiornamento; dall’acquisizione di informazioni relative alle violazioni dei precetti comportamentali, anche attraverso la creazione di una rete di comunicazioni interna; dal coordinamento con gli altri organismi aziendali dotati di competenze similari; dall’attivazione di procedimenti disciplinari. Il monitoraggio della situazione italiana consente di affermare che negli ultimi anni un gran numero delle nostre imprese medio-grandi ha provveduto a dotarsi di un sistema di “Internal Auditing” (revisione interna), che, sostanzialmente, è un apparato di controllo interno con il compito di “effettuare indagini di carattere ispettivo” ed “evitare il rischio di infrazioni alle leggi in generale, tra cui, ad esempio, quelle sulla sicurezza, sulla protezione dell’ambiente ed in materia di privacy” . Siffatto sistema, ormai metodologicamente sperimentato e riconosciuto in ambito internazionale, potrebbe in modo valido assumere anche la funzione di “compliance officer” , o quantomeno affiancarla e coordinarsi con essa per una più efficace e meno dispersiva e onerosa gestione dei controlli e degli strumenti di prevenzione degli specifici “rischi-reato”. 5. L’autonomia della responsabilità della persona giuridica. Che la posizione sostanziale e giudiziaria dell’ente sia indipendente da quella dell’autore del reato -nonostante la normale previsione del simultaneus processus- si evince non solo dai casi di separazione dei giudizi ex art. 38 c.2 d.lg. 231, ma soprattutto da una disposizione specificamente dedicata all’“autonomia della responsabilità dell’ente”. L’art. 8 prevede infatti che questo sia perseguibile anche: 1) quando il reato presupposto si estingue per causa diversa dall’amnistia. Si è infatti ritenuto che le valutazioni politiche sottese al provvedimento di amnistia (propria) a favore dell’individuo reo debbano estendersi anche alla persona giuridica; per di più, la rinuncia al beneficio da parte del soggetto non può valere nei confronti dell’ente, che invece ha un proprio potere di rinunciare, nel caso in cui sia interessato ad ottenere comunque una pronuncia giudiziale. Le altre cause di estinzione del reato, invece (si pensi ad esempio alla grazia), non possono ostacolare il processo alla persona giuridica, almeno se ci si attiene al disposto dell’art. 8. In effetti, però, anche in caso di prescrizione del reato, è preclusa (e siamo all’art. 59) la contestazione dell’illecito amministrativo . Un ultima osservazione: la prescrizione di cui sopra è concetto diverso dalla prescrizione dello stesso illecito della persona giuridica, che si verifica trascorsi cinque anni dalla commissione del reato de quo (art. 22); 2) quando l’autore del reato non è imputabile, non è identificabile o comunque non sia stato identificato. Nel primo caso vi è una carenza della colpevolezza nella fattispecie del reato, che peraltro non travolge la ricostruzione dello stesso fatto storico in chiave di illecito amministrativo, sempre che sussista la “colpa di organizzazione dell’ente”. L’ipotesi di mancata identificazione del reo, estremamente più problematica, costituisce invece un “fenomeno tipico nell’ambito della responsabilità d’impresa”, tanto che “la sua omessa disciplina si sarebbe tradotta in una grave lacuna legislativa” . Tuttavia, bisogna ammettere che suscita gravi perplessità (e incertezze sul piano dell’applicazione e della prova) questa possibilità di “procedere ad affermare la responsabilità dell’ente in assenza dell’identificazione del soggetto attivo del reato, la cui particolare posizione nell’ambito dell’impresa costituisce...il presupposto per la configurabilità della stessa responsabilità amministrativa” . Profili di sostanziale ingiustizia, al limite dell’incostituzionalità, sono insiti poi nella mancata previsione di estinzione dell’illecito amministrativo in caso di risarcimento del danno da parte dell’autore del reato. Il dubbio che sorge a questo proposito è quello della compatibilità dell’omissione rispetto ai canoni di un diritto sanzionatorio moderno, soprattutto laddove a quest’ultimo si chieda di colpire condotte che abbiano una portata effettivamente e gravemente offensiva di beni giuridici. Nel caso in cui il disvalore del fatto sia invece minimo o addirittura “virtuale” (come nell’ipotesi di risarcimento in esame) probabilmente il ricorso a un meccanismo di tutela così invasivo e incisivo non appare più giustificato. - continua - (Marta Silano)

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