6. Il sistema sanzionatorio.
Una lucida analisi dottrinale di qualche anno addietro evidenzia come il sistema latu sensu sanzionatorio in Italia dimostri le sue pecche più gravi con particolare evidenza proprio nel settore delle società commerciali.
Nel tempo si sono dimostrati insufficienti sia gli strumenti di natura civilistica, tra cui l’obbligazione sussidiaria dell’art.197 c.p., sia gli strumenti propriamente penali, connotati da eccessiva rigidità e tipologie sanzionatorie numericamente limitate.
Nel campo della criminalità economica, ove il tema centrale è da sempre quello della “necessità di coincidenza tra responsabilità legale e responsabilità reale” , oltre all’individuazione del soggetto, singolo o collettivo, a cui addebitare la condotta illecita, bisognava infatti congegnare un sistema di misure quanto più flessibili e personalizzate in relazione al tipo di società e al ramo di attività volta per volta raggiunti da un provvedimento sanzionatorio.
Naturalmente una tecnica sanzionatoria non può ritenersi valida a priori; pertanto, il migliore approccio, in questa materia, sembra essere quello sperimentale e, soprattutto, comparatistico, con un attenzione particolare per le soluzioni già efficacemente adottate in altri ordinamenti.
Queste direttive sembra siano state seguite dalla Commissione Lattanzi, e ancor prima dal Parlamento, nell’impostare la delega legislativa.
Alla lettera f dell’art.11 L.300/2000 si raccomandava infatti la predisposizione di “sanzioni...effettive, proporzionate e dissuasive”: triplice aggettivazione che è un leit-motiv della normativa comunitaria in materia di diritto punitivo.
Si può affermare, in definitiva, che la Sezione II del d.lg. 231/2001 -dedicata appunto al sistema sanzionatorio- costituisce un interessante approdo delle tendenze comunitarie e delle esperienze di altri ordinamenti che, prima di noi, hanno “escogitato” un impianto di misure da applicare alla persona giuridica.
Una veloce panoramica sugli artt.9-23 del testo in esame mostra l’opzione per un “sistema binario” di sanzioni pecuniarie e sanzioni interdittive, che però si applicano, in aggiunta alle prime, solo nei casi di “particolare gravità”.
Il cerchio è quindi chiuso dalla previsione di due ulteriori sanzioni accessorie: la pubblicazione della sentenza di condanna e la confisca.
7. Sanzioni pecuniarie.
La misura sanzionatoria fondamentale rimane quindi quella pecuniaria (artt.10 ss.), fissata tra la soglia minima -in lire- di cinquanta milioni e quella massima di tre miliardi.
Il profilo sicuramente più innovativo e interessante di questa specifica disciplina è sicuramente l’originale modalità di commisurazione della sanzione, pensata per meglio garantire i ripetuti appelli all’adeguatezza ed alla proporzionalità della stessa.
Nella legge 300/2000 era richiesto di calibrare la sanzione sulla base delle “condizioni economiche e patrimoniali dell’ente”, oltre che “alla gravità del fatto”.
Il problema, recepito assolutamente dai redattori del d.lg. 231, era quello di evitare sanzioni eccessivamente gravose per la costellazione di piccole e medie imprese presenti in Italia.
A tal fine, il tradizionale sistema di commisurazione “a somma complessiva” è stato ritenuto impraticabile, proprio perchè all’interno di questo meccanismo i criteri sopra riportati non risultano valutati con sufficiente autonomia l’uno dall’altro, e questo può anche agevolare un’eccessiva discrezionalità del giudice nello stabilire la somma complessiva della pena .
Nella pratica poteva accadere, in definitiva, che a parità di gravità del fatto, tramite un utilizzo non razionale dei criteri di commisurazione, si venisse ad applicare una sanzione della stessa entità ad un’azienda di provincia e ad un colosso dell’economia, due realtà effettivamente lontane anni luce dal punto di vista delle “condizioni economiche e patrimoniali”.
Da tutte queste valutazioni è nato pertanto il nuovo sistema commisurativo bifasico “per quote”, mutuato dalla tecnica dei “tassi giornalieri”, che obbliga il giudice alla separazione in due successive operazioni di quelle valutazioni entrambe concorrenti a determinare il quantum di pena.
Infatti, in un primo momento si procederà a determinare il numero di quote entro i limiti di legge, in base a tre parametri: gravità del fatto, attività svolta per eliminarne o attenuarne le conseguenze e per prevenire la commissione di ulteriori reati, grado di responsabilità dell’ente.
Un accenno in più merita quest’ultimo criterio, non solo perchè sconosciuto alla legislazione precedente, ma soprattutto perchè ribadisce l’indefettibilità di una specifica colpa del soggetto collettivo quale presupposto della sua perseguibiltà.
La seconda fase del procedimento di determinazione prevede la fissazione dell’importo di ogni singola quota, considerando finalmente le “condizioni economiche e patrimoniali” della persona giuridica, “sì da evitare eccessi rigoristici ovvero, di converso, l’irrogazione di una sanzione assolutamente non congrua rispetto alla ragguardevole consistenza finanziaria dell’ente” .
La somma finale, vale a dire il valore intero della sanzione applicata, è dato dalla moltiplicazione tra l’importo di ogni singola quota e il numero complessivo delle quote individuate.
Il sistema delineato, nel suo insieme, appare tale da garantire, insieme alla proporzionalità, anche una maggiore controllabilità e trasparenza della valutazione giudiziale.
Sono stati previsti, poi, due casi di riduzione quantitativa della sanzione (art.11): ciò accade in presenza di fatti dal disvalore attenuato oppure di condotte riparatorie poste in essere dall’ente successivamente al fatto.
La prima ipotesi si avvera quando il danno cagionato dal reato è obiettivamente di lieve entità, nonchè quando il fatto sia stato commesso dall’autore nell’interesse prevalentemente proprio o di terzi e l’ente ne abbia ricevuto un vantaggio minimo o nessun vantaggio.
E’ interessante notare subito come il “prevalente interesse proprio” agisca in modo differenziato rispetto all’ “esclusivo interesse proprio”; in questo secondo caso si viene a rompere il nesso di immedesimazione organica tra l’agente e la persona giuridica, cosicchè questa risulta esente da ogni responsabilità.
Ulteriore ipotesi di riduzione è costituita da quei comportamenti dell’ente indirizzati alla reintegrazione del danno e alla rimozione delle conseguenze del reato, nonchè all’adozione di modelli organizzativi volti a impedire il rischio di recidiva .
Entrambe le situazioni, peraltro, sono sottoposte a uno sbarramento temporale: devono realizzarsi “prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di I° grado”.
La specificazione ci permette di osservare il meccanismo a più livelli attraverso cui opera l’adozione di programmi aziendali: se questi sono già efficacemente adottati prima della commissione del reato, abbiamo una vera e propria causa di esclusione della responsabilità dell’ente, mentre, se seguono alla condotta, ma rientrano nei limiti temporali appena specificati, comportano soltanto la riduzione della sanzione.
8. Sanzioni interdittive.
Mentre le sanzioni pecuniarie vanno a colpire il profilo “statico” di una società, il suo patrimonio, le misure interdittive mirano invece al suo apparato funzionale, al cuore dell’attività economica.
Ciò fa sì che esse sono in grado di raggiungere una elevata efficacia specialpreventiva, se utilizzate in modo razionale, cioè, come prescritto all’art.14, indirizzandone la scelta in relazione alla “specifica attività alla quale si riferisce l’illecito dell’ente” e alla loro “idoneità...a prevenire illeciti del tipo di quello commesso”.
D’altra parte, tuttavia, non c’è nessun dubbio sull’estrema invasività di queste misure; le preoccupazioni del legislatore in questo senso sono testimoniate dalla previsione di una loro durata generalmente temporanea (da tre mesi a due anni, secondo il comma 2 dell’art.13) e dall’utilizzo della sanzione radicale dell’interruzione dell’attività come extrema ratio, nel caso in cui ogni altro strumento interdittivo risulti inadeguato.
In generale, si deve ricordare che le sanzioni interdittive vengono applicate, in aggiunta a quelle pecuniarie, e nei casi, espressamente previsti, di particolare gravità.
Il catalogo delle misure è previsto al comma 2 dell’art.9 del decreto, e contempla solo cinque delle sei figure previste all’art.11 lettera L) della legge delega.
Non risulta infatti richiamata la “chiusura definitiva dello stabilimento” poichè la sua applicazione avrebbe dovuto riguardare essenzialmente quei reati (quelli ambientali in modo particolare) che la Commissione Lattanzi non ha ritenuto di dover comprendere nella stesura originaria del decreto.
Peraltro, la vexata quaestio sulla opportunità di introdurre una “pena capitale” per la società, si ripropone sostanzialmente nelle previsioni di “interdizione definitiva dell’attività” possibili, ai sensi dell’art.16, in alcune ipotesi di recidiva nonchè nel caso dell’“impresa intrinsecamente illecita”.
Tale fenomeno si ha quando l’attività dell’ente, o di una sua unità organizzativa, sia concepita e proiettata esclusivamente verso la commissione di reati; è chiaro che per questi casi l’applicazione della sanzione più drastica è giustificata poichè si è in presenza di enti “strutturalmente e funzionalmente insensibili a qualsiasi prospettiva di riorganizzazione” .
E’ opportuno, a questo punto, analizzare la possibilità che l’attività interdetta, purchè non in modo definitivo, continui ad essere svolta previa la nomina di un commissario giudiziale, che avviene nei casi e modi di cui all’art.15 d.lg.
Le ipotesi previste sono essenzialmente due:
-l’attività interdetta è un pubblico servizio la cui interruzione potrebbe provocare un “grave pregiudizio alla collettività”;
-l’interruzione dell’attività avrebbe pesanti ripercussioni sui livelli occupazionali, tenendo conto delle dimensioni dell’azienda e del contesto georafico-economico in cui essa opera.
Il primo caso, già incontrato in tema di soggetti (art.1 d.lg. 231), qui lo si riprende per evidenziare come la Commissione Lattanzi abbia sostituito il concetto di “pregiudizio ai terzi”, presente nella legge delega, con lo specifico “pregiudizio alla collettività”: il mantenimento del criterio più generico, essendo ormai assodato che qualunque sanzione è in grado di provocare conseguenze negative a soggetti innocenti, avrebbe portato a un eccessivo ricorso allo strumento del commissariamento, e, di conseguenza, allo svuotamento della valenza intimidatoria delle sanzioni preventive.
Nei primi commenti alla disciplina del commissariamento giudiziale si è poi ritenuto che l’estensione della sua applicabilità sia da intendersi con riferimento a ogni tipo di misura interdittiva, non solo alla interruzione di attività produttiva in senso stretto.
L’ultima osservazione da farsi concerne il comma 4 dell’art.15, ove si dispone che il profitto derivante dalla continuazione dell’attività venga comunque confiscato.
Come puntualizzato nella Relazione, la confisca enfatizza il valore punitivo dello stesso commissariamento, concepito come “sanzione sostitutiva” all’interdizione; sarebbe infatti illogico dare all’ente la possibilità di “ricavare un profitto dalla mancata interruzione di un’attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico servizio (o non avesse creato problemi occupazionali) sarebbe stata interdetta” .
9. Pubblicazione della sentenza di condanna.
L’art.18 è dedicato a quella che si può definire “un accessorio dell’accessorio”: la pubblicazione della sentenza può infatti avvenire soltanto nei casi in cui venga applicata pure una sanzione interdittiva.
La disciplina dell’istituto nel decreto ricalca il dettato dell’art.36 c.p. , ed è da notare come dal testo non si ricavi alcuna direttiva sui suoi presupposti di applicazione.
Nel silenzio del legislatore una autorevole dottrina ne ha tentato una ricostruzione basata sugli stessi parametri previsti agli artt. 13 e 14 per le sanzioni interdittive.
Secondo quest’impostazione il giudice dovrebbe disporre la pubblicazione della sentenza ogni qualvolta “ritenga tale misura suppletiva utile nell’ottica della repressione del fatto così come accertato e della prevenzione rispetto alla futura commissione di illeciti dello stesso tipo” .
10. Confisca.
Nonostante i mutamenti necessariamente intervenuti nel sistema sanzionatorio, sebbene si registri la perdita di rilevanza di alcuni istituti tradizionali e la nascita di nuovi ed originali, la confisca mantiene una posizione costante, anzi, addirittura più incisiva che in passato.
Secondo l’impostazione del nostro codice penale, quest’istituto è compreso nel novero delle misure di sicurezza patrimoniali , sebbene tale natura giuridica sia fortemente contestata, poichè per la confisca non sembra confacente il presupposto di applicabilità della “pericolosità del soggetto”.
In effetti, se proprio si vuole conservare il requisito della pericolosità, nel caso in esame esso è ricostruibile più facilmente come pericolosità reale, della cosa in sè o, tutt’al più, dell’ “influenza” che la stessa può avere sulle motivazioni psicologiche del soggetto.
Questa interpretazione ha agevolato, non si può negarlo, la moltiplicazione delle previsioni di confisca in relazione ai reati economici, ove la posizione dell’autore individuale del reato non ha un ruolo rilevante in tema di sanzioni da applicare alla persona giuridica.
Si assiste, inoltre, a un viraggio preferenziale verso forme di confisca obbligatoria, sui generis rispetto al modello codicistico, soprattutto perchè si propongono come “un rafforzamento afflittivo delle pene principali, un rincalzo che segue moduli dall’inequivocabile profilo punitivo”.
E proprio nella moderna veste sostanziale di pena accessoria, obbligatoria in tutti i casi in cui sia prevista, ritroviamo quest’istituto nell’art.19 del decreto, norma che offre interessanti ed originali spunti: l’estensione del provvedimento al profitto, oltre che al prezzo, nonchè la previsione generalizzata della confisca “per equivalente”, già saltuariamente sperimentata, ad esempio, nella legislazione antimafia.
Tramite questo meccanismo, laddove i beni da confiscare non siano aggredibili perchè da restituire al danneggiato o perchè su di essi persistano diritti acquisiti in buona fede da terzi, è possibile indirizzare il provvedimento ablativo su altre somme di danaro, beni o utilità di valore equivalente: la ratio è senz’altro quella di “evitare che l’ente riesca comunque a godere illeggittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili”.
Si ricorda, in conclusione, un altro passaggio davvero nuovo rispetto alla disciplina tradizionale della confisca: il comma 5 dell’art.6 prevede l’ablazione del profitto, anche per equivalente, che l’ente ha tratto dal reato persino nell’ipotesi di una intervenuta sentenza di esclusione della sua responsabilità.
Anche qui le ragioni della disposizione legislativa devono rinvenirsi nell’esigenza sostanziale di evitare un “arricchimento” della persona giuridica generato da un’attività illecita.
11. Profili processuali.
L’illecito amministrativo dell’ente è costruito come dipendente dal reato commesso da determinati soggetti inseriti nella sua organizzazione.
In pratica, però, ci troviamo di fronte non a due condotte separate, ma ad unico fatto storico, idoneo a sortire conseguenze penali per gli autori individuali e conseguenze di natura almeno formalmente amministrativa per la persona giuridica.
Si è parlato pure, con una diversa terminologia, di “ultrattività” della condotta sanzionata .
Da questa premessa scaturisce la dialettica, onnipresente nel decreto, tra interdipendenza e autonomia degli accertamenti delle due diverse responsabilità coinvolte.
Nell’analisi di alcune più importanti disposizioni processuali del d.lg. 231/2001 si cercherà di evidenziare la presenza di questo percorso dialettico; inoltre, si avvalorerà il diffuso convincimento che norme come gli artt.34, 35 e 36, più che altre della nuova normativa, riproducendo impostazioni tipiche del sistema penale, mettono in dubbio la natura amministrativa della responsabilità della persona giuridica.
Già nella Relazione al decreto si puntualizza che, assodata l’insufficienza del modello procedimentale amministrativo delineato nella L.689/1981, le “indefettibili esigenze di effettività e garanzia” possono essere perseguite solo facendo del procedimento penale la “sede” dell’accertamento dell’illecito dell’ente, oltre che del reato presupposto.
Di conseguenza l’art.34 d.lg. prescrive, per il procedimento a carico dell’ente, l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale della sua legge d’attuazione, previa verifica di compatibilità con la disciplina speciale.
Ancora, e più significativamente, secondo quanto previsto dall’art.35 d.lg., alla persona giuridica si ritengono generalmente applicabili “le disposizioni processuali relative all’imputato” (e quindi anche quelle relative all’indagato, come l’art.61 c.p.p.).
L’estensione riguarda pertanto il nucleo di diritti e garanzie a favore del soggetto coinvolto nel procedimento punitivo, essenzialmente derivanti dall’affermazione di principi quali il rispetto del contraddittorio, il diritto di difesa, la presunzione di innocenza (artt.111, 24 e 27 Cost.) .
In questa prospettiva vanno lette, ad esempio, le norme dedicate alla partecipazione della persona giuridica al procedimento.
Le prerogative difensive dell’ente nel processo sono assicurate dal suo legale rappresentante, a meno che questi non sia anche l’autore materiale del reato collegato (art.39).
Per evitare il conflitto di interessi, detto soggetto (così come quello che era rappresentante dell’organizzazione al momento del fatto) non può essere chiamato a testimoniare (art.44) , se non “con i limiti e con gli effetti” previsti nel c.p.p. (all’art.210) per l’esame di persona imputata in procedimento connesso.
Ancora, all’art.40 abbiamo l’estensione anche a favore della persona giuridica dell’istituto della difesa d’ufficio, di modo che i principi del “dovuto processo” siano effettivamente, e non solo in teoria, garantiti.
La disposizione che contiene spunti più originali e indicativi rimane comunque l’art.36 del decreto, per il quale la competenza a conoscere dell’illecito dell’ente è dello stesso giudice penale che procede all’accertamento del reato presupposto, e, per di più, nella stessa sede processuale (regola del simultaneus processus).
Quanto al primo profilo, cioè il radicamento della competenza per l’illecito amministrativo in capo al giudice penale, si deve ammettere che si tratta di previsione innovativa e del tutto divergente rispetto al tradizionale sistema amministrativo.
E’ vero che l’art.24 della 689 conosce l’eventualità, nei casi di “connessione obiettiva” tra reato e illecito amministrativo, che il giudice penale applichi in aggiunta alla pena anche la sanzione amministrativa, ma rispetto al meccanismo del decreto 231/2001 vi sono enormi differenze: per l’applicazione della sanzione congiuntamente alla pena non si richiede alcuna autonoma iniziativa del P.M. e, inoltre, l’irrogazione è fatta a carico dello stesso soggetto autore del reato .
Per quanto riguarda l’opzione, di cui all’art.38 c.1 del decreto, per il “simultaneus processus”, essa viene fatta risalire a “ragioni di effettività, omogeneità ed economia” ; motivazioni che questa disposizione condivide con altre, quali:
- l’art.55, per il quale il P.M. è tenuto ad annotare la notizia dell’illecito amministrativo nel registro di cui all’art.335 c.p.p., che è quello in cui già vengono iscritti i reati (e si noti come l’uso dei termini riesca ad evidenziare il legame di dipendenza tra i due accertamenti);
- l’art.56, per cui le indagini relative all’illecito dell’ente debbono concludersi entro gli stessi limiti temporali previsti per quelle relative al reato collegato .
L’interdipendenza degli illeciti, così ben testimoniata da siffatte norme, in taluni casi deve però cedere alla già assodata autonomia della responsabilità della persona giuridica.
Sono infatti previste opportune ipotesi di separazione dei procedimenti, che possiamo leggere all’art.38 c.2 del decreto .
Quel che più interessa è che, pure in casi del genere, il procedimento per l’illecito amministrativo rimane in sede penale; non vi è trasferimento all’Autorità amministrativa, come invece accadrebbe nell’ipotesi in cui venisse meno la connessione obiettiva ex art. 24 della L.689.
Inoltre, una lacuna tecnica nel decreto si individua nel fatto che il legislatore delegato, accanto al meccanismo della separazione, non ha però provveduto a disciplinare casi di pregiudizialità, quantomeno sotto forma di sospensione del procedimento amministrativo fino alla conclusione di quello penale.
Alcuni esempi serviranno a chiarire l’effettiva necessità di una previsione di questo tipo: se il processo penale si chiudesse con una sentenza di esclusione del fatto storico in sè, esso sarebbe sostanzialmente pregiudiziale all’accertamento dell’illecito amministrativo, poichè l’assodata mancanza dell’evento escluderebbe in toto la perseguibilità dell’ente.
In casi del genere la sospensione obbligatoria del procedimento “amministrativo” avrebbe evitato inutili, costose e irrazionali lungaggini processuali, nonchè il rischio di contrasto tra giudicati.
Altra questione notevole è quella evidenziata dalla lettura combinata degli artt.58 e 59 con gli artt.66, 67, 69 sempre del decreto in esame.
All’esito delle indagini nei confronti dell’ente il P.M. deve o procedere all’archiviazione, oppure contestare l’illecito e introdurre il giudizio, all’esito del quale si avrà necessariamente una sentenza, che sia di esclusione della colpevolezza, di non doversi procedere o di condanna.
Ad esempio, nel caso della morte o della mancata individuazione dell’autore del reato potrebbe esservi, se non si è archiviata l’indagine, una sentenza di esclusione della responsabilità, la cui prova in questi casi è quantomeno insufficiente.
Pertanto,in nessun caso l’azione nei confronti della persona giuridica è rinunciabile .
Ciò ha indotto parte della dottrina a chiedersi se si possa parlare di una vera e propria obbligatorietà dell’azione di responsabilità ex d.lg.231.
Di sicuro, nel dubbio sulla reale natura giuridica della responsabilità in questione, appare poco appropriato far discendere tale obbligatorietà dall’art.112 Cost. , che si riferisce espressamente ed esclusivamente all’azione penale in senso stretto.
Un ultimo accenno, di natura essenzialmente tecnica, riguarda l’istituzione di un’Anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative, prevista nel decreto agli artt.80, 81, 82.
L’Anagrafe è istituita presso lo stesso Casellario Giudiziale centrale, perchè, ai sensi della lettera s) del comma 1 dell’art.11 della legge delega, era opportuno non aggravare lo Stato con nuovi o maggiori oneri.
Nel registro si avrà l’annotazione temporanea di tutte le sentenze e i decreti irrevocabili che hanno disposto sanzioni amministrative, nonchè dei relativi provvedimenti del giudice dell’escuzione, anch’essi quando divenuti inoppugnabili.
L’eliminazione delle iscrizioni, che si ha automaticamente col decorso di un certo periodo di tempo (5 o 10 anni dalla loro esecuzione), è impedita dalla reiterazione, cioè dalla “commissione”, in quell’arco di tempo, di un altro illecito amministrativo da parte dello stesso ente.
In realtà, come è stato giustamente rilevato, essendo il tempo della commissione non facilmente conoscibile e verificabile, sarebbe stato preferibile far riferimento ad altri eventi, quale ad esempio “l’irrogazione definitiva della sanzione” .
12. Le lacune del decreto
A) Le conseguenze civili della responsabilità dell’ente.
Si è parlato addirittura di difetto di delega in relazione alla rilevata omissione, nel testo del decreto, delle conseguenze civili dell’accertamento della responsabilità dell’ente.
In effetti l’art.11 della legge delega, alle sue lettere t), u), v), z), richiedeva espressamente che fossero disciplinati: la possibilità, per il “socio incolpevole” di recedere dall’ente dichiarato responsabile; l’agevolazione dell’azione sociale di responsabilità (ex art. 2393 c.c.) per il risarcimento dei danni; l’esercizio delle azioni individuali di risarcimento da parte del socio e altresì del terzo.
Con una semplice deduzione si può affermare che questi erano gli strumenti che la L.300 del 2000 riteneva opportuni e sufficienti a risolvere il problema, incontrato più volte nel corso di questo lavoro, della ripercussione delle conseguenze della responsabilità e della sanzione su soggetti diversi dal responsabile.
Tuttavia, la Commissione Lattanzi non ha ritenuto di dover affrontare siffatti temi, essenzialmente per un duplice ordine di ragioni.
La prima “scusante” è di natura strettamente tecnico-normativa: le nuove modalità di tutela previste dalla legge delega sarebbero state insufficientemente chiare e comunque estranee e forse incompatibili col tradizionale assetto della materia societaria così come previsto nella normativa in vigore.
La seconda ragione, squisitamente politica, è data dai rischi insiti nell’applicazione stessa di quelle disposizioni.
Le azioni agevolate a tutela del socio non solo andrebbero a ledere la posizione di altri soggetti, quali i creditori dell’ente, ma porterebbero, il più delle volte, allo “smantellamento” dello stesso, aggredito violentemente su più fronti.
Ciò renderebbe oltremodo pesante il carico sanzionatorio sulla persona giuridica, e, in prospettiva, si risolverebbe nell’indebolimento e nella perdita di concorrenzialità delle nostre imprese agli occhi degli altri Paesi, ove non si registra, ad oggi, una disciplina a tal punto repressiva e oppressiva dell’iniziativa economica.
B) La responsabilità del dirigente.
Da più parti si rileva che il legislatore del 2001, indirizzando tutto il suo impegno nel disciplinare la responsabilità dell’impresa, non ha invece colto l’occasione per regolare definitivamente la responsabilità nell’impresa, vale a dire la posizione penale dei dirigenti in relazione all’omesso impedimento dei reati dei loro sottoposti.
Il persistente vuoto normativo risulta alquanto grave, poichè numerose sono le fonti europee che richiedono una presa di posizione in ordine a questo tema.
Si ricordi, ad esempio, la stessa Convenzione del 1995 relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee , che dedica un intero articolo, il 3, alla “responsabilità penale dei dirigenti delle imprese”.
Ancora, un interessante impostazione della materia si trova nel citato progetto di “Corpus Juris”, nel quale vengono evidenziati tre livelli di responsabilità per il reato commesso dal sottoposto: il primo è quello dell’autore del reato, il secondo quello della stessa società, e il terzo, che qui più ci interessa, quello del dirigente che, omettendo il controllo, ha agevolato il reato.
Alla posizione di questi è dedicato il dettato dell’art.13 del “Corpus”: “...sono responsabili anche l’imprenditore o qualunque altra persona che possieda il potere di decisione o di controllo all’interno dell’impresa” quando essi “con cognizione di causa, abbiano impartito ordini o lasciato commettere il reato o abbiano omesso di esercitare i controlli necessari”.
La ritrosia del Governo non pare poi proprio giustificabile se si tiene conto che la Commissione Grosso, attiva in quegli stessi mesi di elaborazione del Decreto, ha dedicato un’ampia attenzione al problema della responsabilità all’interno dell’ente.
Attenzione che è sfociata nell’art.22 del Progetto, ove vi è l’apposita previsione della responsabilità per omesso impedimento dei reati dei sottoposti in capo a quei soggetti che risultino titolari di posizioni di garanzia rivolte ad impedire i comportamenti illeciti, secondo le direttive dei modelli organizzativi adottati.
Di siffatta impostazione desta però perplessità l’incardinamento della responsabilità del dirigente nel quadro dei “reati omissivi impropri” (ex art.40 c.2 c.p. ); per questi il nesso di causalità è costruito come certezza (o quasi certezza) che l’omessa attività di controllo avrebbe impedito l’evento, comportando così un’eccessiva restrizione dell’ambito di perseguibilità del soggetto apicale.
In una prospettiva de lege ferenda, è stata pertanto auspicata una ricostruzione del fatto del dirigente sotto forma di “reato di agevolazione colposa”, con le conseguenze di una espansione dei casi di incriminazione ma pure di una riduzione dei limiti di pena, che, invece, nel Progetto Grosso risultano essere gli stessi previsti per i reati non impediti.
Conclusioni.
Nel corso di questo lavoro si è tentata una lettura di alcuni canoni fondamentali del nostro diritto penale - dal principio di colpevolezza al “societas delinquere non potest” - più adeguata a dare una risposta ai numerosi quesiti posti dal problema della criminalità economica.
Alla luce degli ultimi avvenimenti che stanno interessando l’economia e, di riflesso, la legislazione italiana, appare ormai improcrastinabile creare condizioni sistematico-dommatiche entro cui procedere finalmente ad una ricostruzione della responsabilità (melius corresponsabilizzazione) delle persone giuridiche per gli illeciti perpetrati da soggetti ad essa funzionalmente legati.
Gli ultimi misfatti del mondo delle imprese spingono senz’altro verso un decisivo mutamento di rotta e, inoltre, inducono a superare definitivamente alcune sterili obiezioni dottrinali alla perseguibilità penale degli enti.
Un esempio per tutti: più volte, in questa tesi, si sono riportate quelle concezioni relative alla non opportunità della comminatoria di sanzioni alla persona giuridica, poichè le stesse andrebbero inevitabilmente a colpire pure dei soggetti “innocenti” (lavoratori, risparmiatori, creditori).
Ebbene, la realtà ha, al contrario, dimostrato che una risposta forte agli illeciti economici è necessaria proprio a tutela di detti soggetti: tant’è, in questi giorni è al varo delle Camere un progetto di legge che prospetta aspre sanzioni (di natura criminale) a carico di quegli enti che, con comportamenti illegali, “tradiscano la fiducia dei risparmiatori”.
Tuttavia, non si è voluto in questa sede alimentare “il mito dell’onnipotenza dell’intervento penale” : i miei studi mi impediscono di avallare la prospettiva di un controllo criminale ipertrofico.
In effetti, anche in tema di criminalità economica, sulla scia dell’emergenza , si corre il rischio di creare nuove e “frettolose” fattispecie penali prive di razionalità sistematica, e, dal punto di vista delle sanzioni, inidonee a perseguire finalità di positiva integrazione sociale .
Si è avuto modo di osservare , ad esempio, come la scelta saggia del legislatore del 2001 di ritagliare un circoscritto novero di illeciti da attribuire all’ente sia stata disattesa subito dopo l’entrata in vigore del d.lg. 231, con la progressiva e non sufficientemente ponderata estensione della responsabilità ivi prevista a una serie eterogenea di comportamenti.
E l’entusiasmo del legislatore non pare, per ora, trovare una tregua.
In realtà, il nostro ordinamento, non ponendo obblighi di criminalizzazione, non vieta l’utilizzo di strumenti di controllo sociale alternativi a quello penale.
Anzi, è opportuno ribadire che il ricorso al diritto e alla sanzione stricto sensu criminali si impone soltanto laddove, per la significatività del bene da tutelare e la gravità della lesione allo stesso arrecata, ogni misura di altra natura appaia inadeguata.
In questa riflessione si concentrano tutte le opzioni metodiche e normative di un sistema penale che possa dirsi razionale ed efficiente.
“La giustizia penale è un male necessario, se essa supera i limiti della necessità resta soltanto il male” ; la sussidiarietà del controllo penale deve pertanto essere verificata alla luce del bilanciamento dei valori coinvolti: da una parte l’ordine sociale e la giustizia, dall’altro la garanzia dei diritti, in primo luogo della libertà personale (ma anche -nel nostro caso- della stessa libertà d’iniziativa economica).
E’ nella Carta Costituzionale che, secondo un autorevole insegnamento , vanno necessariamente individuati i principi fondanti del sistema penale e il quadro dei valori da tutelare.
La selezione dei valori di interesse fondamentale nella società è poi il presupposto indefettibile per la costruzione di un diritto penale finalizzato alla tutela di beni giuridici effettivamente riconosciuti dalla generalità dei consociati, nel rispetto dei canoni della frammentarietà (cioè della selezione di pochi e rilevanti beni da tutelare tramite il precetto criminale) e dell’offensività (che esige che vengano sanzionati solo quei comportamenti effettivamente lesivi del bene).
Di conseguenza, verrebbe affidata a misure di controllo alternative (civili o amministrative) la repressione degli illeciti “bagattellari”, che comportano lesioni di beni secondari o microlesioni di beni rilevanti, mentre al diritto penale resterebbe riservato il compito di perseguire pochi e circoscritti, ma gravi, casi di responsabilità dell’individuo e della persona giuridica.
Il tutto, con positivi ritorni sul piano della “credibilità” e, last but not least, dell’effettività dell’intero sistema.
(Marta Silano)
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