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Si ricorderà che il crollo della Enron ha coinvolto la società di revisione contabile Arthur Andersen, che è stata
condannata (e di fatto cancellata dal mercato) per “ostruzione alla giustizia”,
per aver distrutto documenti, cartacei ed elettronici, sotto la guida dei
vertici del gruppo, quando la società era a conoscenza della rilevanza dei
documenti per la vicenda Enron.
Il reato di “ostruzione alla giustizia”, contestato e ritenuto a carico
all’Andersen, non esiste in quanto
tale in Italia (v. la prossima modifica del 377 c.p., che però non è
pertinente).
La distruzione di documenti al fine di consentire a taluno di eludere le indagini potrebbe rilevare come
favoreggiamento personale (art 378 c.p.): ma questo reato non impegna sul piano
sanzionatorio l’ente ex d.lg.
231.
La responsabilità della società di revisione è
stata di recente rivista ad opera del decreto legislativo 61/2002.
Il nuovo art 2624 c.c.[1] testualmente recita:
“1. I responsabili della revisione i quali, al fine di conseguire per sé o per altri
un ingiusto profitto, nelle relazioni o in altre comunicazioni, con la
consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari delle
comunicazioni, attestano il falso od occultano informazioni concernenti la
situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto
sottoposto alla revisione, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari
delle comunicazioni sulla predetta situazione, sono puniti, se la condotta non
ha loro cagionato un danno patrimoniale, con l’arresto fino ad un anno.
2. Se la condotta di cui al primo
comma ha cagionato un danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni, la
pena è della reclusione da uno a quattro anni.”
Le due fattispecie criminose contenute nell’articolo in esame
sostituiscono l’abrogata fattispecie di cui all’art 175
del d.lg. 24 febbraio 1998 n. 58.
Secondo la Relazione di accompagnamento, la
previsione “di due ipotesi di reato, …, ha consentito di meglio calibrare il disvalore del fatto, analogamente a quanto stabilito per le
false comunicazioni sociali e per il falso in prospetto, a seconda che dalla
stessa condotta intenzionale derivi o no l’evento materiale del danno
patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni”.
Il tentativo non è pertanto ammissibile, come per il falso in prospetto:
non avrebbe infatti un’autonomo
spazio di rilevanza, distinto dall’ambito coperto dall’ipotesi contravvenzionale di pericolo.
L’ipotesi contravvenzionale non può poi essere
realizzata né con colpa né con dolo eventuale, in deroga all’art 42 ult. co.
c.p.: parlandosi di “consapevolezza della falsità” e di “intenzione di
ingannare i destinatari delle comunicazioni”, si richiede inequivocabilmente il
dolo intenzionale.
La disposizione in esame contempla quindi il fatto criminoso dei
“responsabili della revisione”, utilizzando una
terminologia atecnica e non del tutto rispettosa del
principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale.
Va comunque ricordata l’equiparazione
dell’amministratore di fatto a quello ufficiale operata dall’art 2639 c.c., ai sensi del quale “al soggetto formalmente investito
della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è
equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente
qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri
tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”. Inoltre l’art 25 ter del d.lg. 231 – che configura
la responsabilità della società in relazione al reato
del soggetto apicale – prevede che possa coinvolgere la società il reato
commesso dagli “amministratori, direttori generali, liquidatori o persone
sottoposte alla loro vigilanza”.
La condotta del reato previsto dall’art 2624 c.c. è a forma vincolata:
-
da una lato deve
trattarsi di attestazione del falso o di occultamento di informazioni
concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società,
ente o soggetto sottoposto a revisione;
-
dall’altro la condotta
deve estrinsecarsi “nelle relazioni o in altre comunicazioni”.
Ciò che davvero interessa rilevare in questa sede è che entrambi i commi dell’art 2624 c.c. sono
richiamati dall’art 25 ter del d.lg.
231 del 2001 (introdotto dall’art 3 del d.lg. in
esame), che prevede la punibilità della società se il reato in questione viene
commesso “nell’interesse della società” stessa da amministratori, direttori
generali, liquidatori o persone sottoposte alla loro vigilanza.
La sanzione per la società di revisione
in ipotesi condannata è compresa tra 100 e 130 quote per l’ipotesi contravvenzionale e tra 200 e 400 quote per l’ipotesi
delittuosa. Se la società di revisione ha conseguito
un profitto di rilevante entità (comunque oggetto di confisca), la sanzione
pecuniaria è aumentata di un terzo (art 25 ter comma
3).
La versione definitiva dell’art 25 ter non ha invece mantenuto la disposizione secondo cui,
nei casi di condanna in relazione a taluno dei delitti
nello stesso indicati, “si applicano all’ente le sanzioni interdittive
previste dall’art 9 comma 2 del d.lg. 231, per una
durata non superiore ad un anno” (schema di decreto approvato l’11 gennaio
2002); avrebbe avuto ben altra efficacia deterrente la possibilità di
applicare, anche in sede cautelare, l’interdizione dall’esercizio dell’attività.
Con
riguardo ai princìpi generali (art 11 d.lg. 231), l’entità della sanzione pecuniaria – o meglio:
il numero delle quote – dipenderà oltre che dalla gravità del fatto e
dall’attività riparatoria-preventiva, anche e
soprattutto dal “grado di responsabilità dell’ente” (più incisivamente definito
“grado di coinvolgimento” della persona giuridica dal Progetto di revisione della parte generale del codice penale elaborato
dalla Commissione presieduta dal prof. Grosso - art 127 comma 4).
Il grado di responsabilità della società di revisione è tanto più alto se mancano i modelli di
organizzazione e gestione anticrimine ovvero quanto più sono insufficienti o
non sono effettivi tali modelli.
In altri
termini: il coinvolgimento della società sarà tanto maggiore, quanto più la
società stessa ha mostrato di non volersi adeguatamente premunire dal
“rischio-reato”.
I soggetti apicali o dipendenti della società di revisione possono incorrere nella responsabilità penale ex
art 622 c.p. (Rivelazione di segreto professionale).
A tale
disposizione è stata infatti aggiunta un’aggravante
comune (quindi suscettibile di bilanciamento quantomeno con le circostanze
attenuanti generiche), “se la rivelazione del segreto professionale è commessa
da chi svolge la revisione contabile della società”: sono stati di conseguenza
abrogati gli artt 2622 c.c. e 176 T.U. mercati
finanziari. Tuttavia questo reato non può coinvolgere direttamente la società,
non essendo richiamato dall’art 25 ter: del resto è
difficile ipotizzare che la divulgazione a terzi di notizie o informazioni
apprese in sede di revisione possa riverberarsi a
vantaggio della società di revisione stessa.
(Maurizio
Arena)