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Il ruolo e la responsabilità delle società di revisione contabile (III)



PARTE TERZA

PARTE TERZA

 

- La responsabilità amministrativa della società di revisione

 

Si ricorderà che il crollo della Enron ha coinvolto la società di revisione contabile Arthur Andersen, che è stata condannata (e di fatto cancellata dal mercato) per “ostruzione alla giustizia”, per aver distrutto documenti, cartacei ed elettronici, sotto la guida dei vertici del gruppo, quando la società era a conoscenza della rilevanza dei documenti per la vicenda Enron.

Il reato di “ostruzione alla giustizia”, contestato e ritenuto a carico all’Andersen, non esiste in quanto tale in Italia (v. la prossima modifica del 377 c.p., che però non è pertinente).

La distruzione di documenti al fine di consentire a taluno di eludere le indagini potrebbe rilevare come favoreggiamento personale (art 378 c.p.): ma questo reato non impegna sul piano sanzionatorio l’ente ex d.lg. 231.

La responsabilità della società di revisione è stata di recente rivista ad opera del decreto legislativo 61/2002.

Il nuovo art 2624 c.c.[1] testualmente recita:

“1. I responsabili della revisione i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nelle relazioni o in altre comunicazioni, con la consapevolezza della falsità e l’intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni, attestano il falso od occultano informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto alla revisione, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni sulla predetta situazione, sono puniti, se la condotta non ha loro cagionato un danno patrimoniale, con l’arresto fino ad un anno.

2. Se la condotta di cui al primo comma ha cagionato un danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni, la pena è della reclusione da uno a quattro anni.

Le due fattispecie criminose contenute nell’articolo in esame sostituiscono l’abrogata fattispecie di cui all’art 175 del d.lg. 24 febbraio 1998 n. 58.

Secondo la Relazione di accompagnamento, la previsione “di due ipotesi di reato, …, ha consentito di meglio calibrare il disvalore del fatto, analogamente a quanto stabilito per le false comunicazioni sociali e per il falso in prospetto, a seconda che dalla stessa condotta intenzionale derivi o no l’evento materiale del danno patrimoniale ai destinatari delle comunicazioni”.

Il tentativo non è pertanto ammissibile, come per il falso in prospetto: non avrebbe infatti un’autonomo spazio di rilevanza, distinto dall’ambito coperto dall’ipotesi contravvenzionale di pericolo.

L’ipotesi contravvenzionale non può poi essere realizzata né con colpa né con dolo eventuale, in deroga all’art 42 ult. co. c.p.: parlandosi di “consapevolezza della falsità” e di “intenzione di ingannare i destinatari delle comunicazioni”, si richiede inequivocabilmente il dolo intenzionale.

La disposizione in esame contempla quindi il fatto criminoso dei “responsabili della revisione”, utilizzando una terminologia atecnica e non del tutto rispettosa del principio di sufficiente determinatezza della fattispecie penale.

Va comunque ricordata l’equiparazione dell’amministratore di fatto a quello ufficiale operata dall’art 2639 c.c., ai sensi del quale “al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione”. Inoltre l’art 25 ter del d.lg. 231 – che configura la responsabilità della società in relazione al reato del soggetto apicale – prevede che possa coinvolgere la società il reato commesso dagli “amministratori, direttori generali, liquidatori o persone sottoposte alla loro vigilanza”.

La condotta del reato previsto dall’art 2624 c.c. è a forma vincolata:

-         da una lato deve trattarsi di attestazione del falso o di occultamento di informazioni concernenti la situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ente o soggetto sottoposto a revisione;

-         dall’altro la condotta deve estrinsecarsi “nelle relazioni o in altre comunicazioni”.

Ciò che davvero interessa rilevare in questa sede è che entrambi i commi dell’art 2624 c.c. sono richiamati dall’art 25 ter del d.lg. 231 del 2001 (introdotto dall’art 3 del d.lg. in esame), che prevede la punibilità della società se il reato in questione viene commesso “nell’interesse della società” stessa da amministratori, direttori generali, liquidatori o persone sottoposte alla loro vigilanza.

La sanzione per la società di revisione in ipotesi condannata è compresa tra 100 e 130 quote per l’ipotesi contravvenzionale e tra 200 e 400 quote per l’ipotesi delittuosa. Se la società di revisione ha conseguito un profitto di rilevante entità (comunque oggetto di confisca), la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo (art 25 ter comma 3).

La versione definitiva dell’art 25 ter non ha invece mantenuto la disposizione secondo cui, nei casi di condanna in relazione a taluno dei delitti nello stesso indicati, “si applicano all’ente le sanzioni interdittive previste dall’art 9 comma 2 del d.lg. 231, per una durata non superiore ad un anno” (schema di decreto approvato l’11 gennaio 2002); avrebbe avuto ben altra efficacia deterrente la possibilità di applicare, anche in sede cautelare, l’interdizione dall’esercizio dell’attività.

Con riguardo ai princìpi generali (art 11 d.lg. 231), l’entità della sanzione pecuniaria – o meglio: il numero delle quote – dipenderà oltre che dalla gravità del fatto e dall’attività riparatoria-preventiva, anche e soprattutto dal “grado di responsabilità dell’ente” (più incisivamente definito “grado di coinvolgimento” della persona giuridica dal Progetto di revisione della parte generale del codice penale elaborato dalla Commissione presieduta dal prof. Grosso - art 127 comma 4).

Il grado di responsabilità della società di revisione è tanto più alto se mancano i modelli di organizzazione e gestione anticrimine ovvero quanto più sono insufficienti o non sono effettivi tali modelli.

In altri termini: il coinvolgimento della società sarà tanto maggiore, quanto più la società stessa ha mostrato di non volersi adeguatamente premunire dal “rischio-reato”.

I soggetti apicali o dipendenti della società di revisione possono incorrere nella responsabilità penale ex art 622 c.p. (Rivelazione di segreto professionale).

A tale disposizione è stata infatti aggiunta un’aggravante comune (quindi suscettibile di bilanciamento quantomeno con le circostanze attenuanti generiche), “se la rivelazione del segreto professionale è commessa da chi svolge la revisione contabile della società”: sono stati di conseguenza abrogati gli artt 2622 c.c. e 176 T.U. mercati finanziari. Tuttavia questo reato non può coinvolgere direttamente la società, non essendo richiamato dall’art 25 ter: del resto è difficile ipotizzare che la divulgazione a terzi di notizie o informazioni apprese in sede di revisione possa riverberarsi a vantaggio della società di revisione stessa.

 

(Maurizio Arena)

 



 

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