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L'onere della prova nel d.lg. 231



L'inversione dell'onere della prova posta a carico dell'ente nelle ipotesi di reato degli apicali suscita dubbi di legittimità costituzionale.

- La quaestio iuris

- La quaestio iuris

Come è stato autorevolmente affermato, l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato – gravante, nel processo penale, sul pubblico ministero - è il “precipitato tecnico” della presunzione di non colpevolezza di cui all’art 27 Cost.

Occorre chiedersi se l’inversione dell’onere della prova ex art 6 d.lg. 231/2001 – nelle ipotesi di reato dei soggetti di vertice - violi la presunzione menzionata.

Ancora: si può giustificare la (eventuale) violazione di questo principio affermando che, pur con questa tensione con il principio costituzionale, si fornisce all’ente una via d’uscita, che, altrimenti, sarebbe sempre coinvolto dal reato dell’apice, in virtù dell’immedesimazione organica?

E’ evidente come la soluzione di simili questioni dipenda dall’inquadramento della natura della responsabilità dell’ente collettivo: inquadramento che non è, come da più parti si afferma, un puro esercizio teorico.

La previsione dell’art 6 potrebbe essere censurata ove si reputasse sostanzialmente penale la responsabilità in questione; diversa sarebbe la conclusione se la si ritenesse di natura amministrativa (in questo senso, peraltro, sembra orientata la giurisprudenza).

Secondo la migliore dottrina, gravare l’imputato di oneri probatori non è di per sé incostituzionale, se l’esercizio di tali oneri è effettivo.

Occorre allora verificare cosa chiede il d.lg. 231 all’ente per andare esente da rimprovero.

Sin dall’inizio si è detto che ciò che si chiede all’ente è, di fatto, una probatio diabolica.

Se il reato e' stato commesso dai soggetti apicali (art 6), “l'ente non risponde se prova che:

a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;

b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento e' stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;

c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;

d) non vi e' stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b).

Si può comprendere che l’ente dimostri la mancanza di colpa organizzativa, ma perché gravarlo dell’onere di provare la “colpa” (sub specie di condotta fraudolenta) altrui?

La prova dell’elusione fraudolenta del Modello da parte dell’apice determina il rischio di responsabilità oggettiva, in violazione dei principi fondamentali della colpevolezza.

- La relazione governativa al d.lg. 231

L’elaborato della Commissione Lattanzi afferma che “…la particolare qualità degli autori materiali dei reati ha suggerito al delegato l'opportunità di differenziare il sistema rispetto all'ipotesi in cui il reato risulti commesso da un sottoposto, prevedendo, nel primo caso, una inversione dell'onere probatorio. In altri termini, si parte dalla presunzione (empiricamente fondata), nel caso di reato commesso da un vertice, che il requisito "soggettivo" di responsabilità dell'ente sia soddisfatto, dal momento che il vertice esprime e rappresenta la politica dell'ente; ove ciò non accada, dovrà essere la societas a dimostrare la sua estraneità, e ciò potrà fare soltanto provando la sussistenza di una serie di requisiti tra loro concorrenti (è ragionevole prevedere che questa prova non sarà mai agevole; si rivelerà poi praticamente impossibile nel caso di ente a base manageriale ristretta). L'ente, dunque, è chiamato a dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi (la modulazione di questa ipotesi sulle "risultanze" dottrinali e giurisprudenziali in tema di colpa specifica è piuttosto scoperta); dovrà inoltre vigilare sulla effettiva operatività dei modelli, e quindi sulla osservanza degli stessi: a tal fine, per garantire la massima effettività del sistema, è disposto che la societas si avvalga di una struttura che deve essere costituita al suo interno (onde evitare facili manovre volte a precostituire una patente di legittimità all'operato della societas attraverso il ricorso ad organismi compiacenti, e soprattutto per fondare una vera e propria colpa dell'ente), dotata di poteri autonomi e specificamente preposta a questi compiti.

Ma - quel che più conta - l'ente dovrà dimostrare che il comportamento integrante il reato sia stato posto in essere dal vertice eludendo fraudolentemente i suddetti modelli di organizzazione e di gestione. La lettera c) bene si presta, dunque, a fotografare le ipotesi di c.d. "amministratore infedele", che agisce cioè contro l'interesse dell'ente al suo corretto funzionamento. Si noti peraltro che secondo questa disciplina, affinché venga meno la responsabilità dell'ente, non è sufficiente che ci si trovi di fronte ad un apice infedele; si richiede - di più - che non sia ravvisabile colpa alcuna da parte dell'ente stesso, il quale - attraverso il suo organismo - deve aver vigilato anche sull'osservanza dei programmi intesi a conformare le decisioni del medesimo secondo gli standard di "legalità preventiva" (lett. d)”.
- L’Ordinanza del GIP del Tribunale di Milano (caso SIEMENS AG)

Illuminante sulla stato della questione il seguente passo dell’ordinanza: “E’ chiaro infatti, nel sistema del D.L.vo 231/2001, che chi, come il dirigente apicale, impersona l’Ente, non trascina nella responsabilità l’Ente stesso solo nella situazione limite in cui si possa provare, non certo per ipotesi o presunzione, che egli abbia pervertito e frustrato con l’inganno l’intero sistema decisionale e di controllo della società. Ma si tratta evidentemente di una situazione limite e quasi manualistica che ben difficilmente può fare ingresso in simili procedimenti”.

- La sentenza di patteggiamento del Tribunale di Pordenone

Di manica larga il GUP del Tribunale di Pordenone (4 novembre 2002):

Appare conforme  a  giustizia  la  concessione  all'imputata  società  delle  circostanze attenuanti di all'art. 12, secondo comma, lett. a) e b) d. Ig. 8 giugno 2001, n. 231, con conseguente determinazione  a mente dell'art 12, terzo comma, d. Ig. n. 231/01: invero, l'ente  non  solo  ha  integralmente  risarcito  il  pregiudizio  arrecato  alla  pubblica amministrazione,  dimettendo  libretto  di  deposito  a risparmio recante somma ampiamente capiente  del  ristoro  dei  danni  morali cagionati; ma anche ha comprovato l'adozione di modelli  organizzativi  idonei  a  prevenire  la  commissione di ulteriori reati, all'uopo dimettendo  il  21  ottobre  2002  ampia documentazione donde risulta che la Società Alfa s.p.a. ha allontanato  Tizio dall'amministrazione  e  dalla  rappresentanza  dell'ente,  abbandonando definitivamente  le  condotte criminose che il suo legale rappresentante pro tempore aveva assunto per avvantaggiare la società”.

Il d.lg., invero, non si accontenta della (prova della) mera adozione di modelli astrattamente idonei, ma richiede, soprattutto, (la prova del)l’efficace ed effettiva attuazione degli stessi.

- Uno sguardo al sistema anglosassone

La colpa dell’ente, secondo recenti orientamenti, consiste nella mancanza di corporate culture.

In cosa consiste la corporate culture?

Consiste nel clima di obbedienza alla legge che la catena di comando e la struttura decisionale riescono a creare e mantenere all’interno dell’impresa.

La migliore dottrina si è impegnata nell’individuazione degli indicatori della cultura societaria (su tutti P. Bucy, Corporate ethos: a standard for imposing corporate criminal liability, 1991).

In particolare, per stabilire se un ente ha incoraggiato la commissione di un reato occorre verificare soprattutto:

1)      se il controllo sui singoli processi interni è stato insufficiente o non tempestivo;

2)      se gli scopi dell’ente potevano essere perseguiti solo nel disprezzo della legge;

3)      se l’ente ha istruito e supervisionato i dipendenti;

4)      quale è stato il comportamento dell’ente dopo l’illecito: in particolare la compensation (riparazione delle conseguenze dannose o pericolose dell’illecito);

5)      se esistevano ed erano effettivamente attuate explicit guidelines anti-crimine

La nozione praticabile di colpa è allora riconducibile alla mancanza o alla violazione di regole di corretta policy aziendale, nelle quali si manifesta il concetto di “volontà dell’ente”.

Sotto il profilo processuale è opinione diffusa quella che ritiene opportuno imporre all’ente l’onere della prova contraria rispetto all’accusa di mancata o insufficiente prevenzione: in altri termini l’ente non risponde se prova di essere stato “prudente e diligente” nella prevenzione del reato.

Tale inversione dell’onere della prova sembra violare la presunzione di innocenza, ma in concreto fornisce una migliore via d’uscita per l’ente rispetto alle teorie classiche.

In definitiva il reato dell’apice determina una presunzione relativa di colpa aziendale: l’ente potrà superarla dimostrando di essere stato “prudente e diligente”.

Questa impostazione dottrinale è stata formalmente recepita dal codice penale australiano del 1995 che codifica il concetto di “corporate culture”.

La corporate culture è definita come “an attitude, policy, rule, course of conduct or practice existing within the body corporate generally or in the part of the body corporate wich the relevant activities take place”.

La colpa dell’ente può essere provata dimostrando che nell’impresa esisteva una cultura che incoraggiava o tollerava il mancato rispetto delle leggi; oppure anche dalla mancanza o dall’ineffettività delle policies aziendali volte al rispetto delle leggi.

L’ente non risponde se prova that it exercised due diligence to prevent the conduct.

Si noti che il c.p. australiano è menzionato nella stessa Relazione di accompagnamento del d.lg. 231, laddove si mette in evidenza la necessità di criteri di imputazione soggettiva oltre quelli, tradizionali, di carattere oggettivo, vale a dire l’aver agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

- Un preoccupante sviluppo

La legge Comunitaria 2004, nel recepire la normativa comunitaria sugli abusi di mercato, stabilisce che l’ente non risponde in relazione agli illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato se prova che la persona fisica ha agito nel suo interesse esclusivo.

Quindi si introduce l’inversione dell’onere della prova anche in relazione al criterio oggettivo di imputazione; inoltre si prevede ciò solo in relazione alla nuova responsabilità dell’ente da illecito amministrativo della persona fisica e non anche a quella – consacrata nel d.lg. 231 – da reato.

Anche a questa forma di responsabilità si applicano i principi di cui agli artt 6-7 del d.lg. 231 (art 187 quinquies TUF).

Insomma: sarà l’ente a dover provare di essere estraneo, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, all’illecito dell’apice: si tratta forse del passo definitivo verso l’affossamento delle finalità preventive del d.lg. 231?

(Maurizio Arena)

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