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- La questione
In due occasioni
la giurisprudenza di merito si è soffermata su un’interessante questione
processuale: è ammissibile la
costituzione di parte civile nei confronti di un ente chiamato a rispondere in relazione al reato della persona fisica, ai sensi del d.lg. 231/2001?
Ci si riferisce a due ordinanze del Tribunale di Milano (Ufficio G.I.P.), rispettivamente pronunciate dalla dott.ssa Forleo il 9 marzo 2004 e dal dott. Sacconi il 25 gennaio 2005.
Entrambi i provvedimenti escludono l’ammissibilità della costituzione in
parola.
- Le ragioni dell’inammissibilità
1. Il presupposto del “reato” che abbia cagionato un danno
Gli artt. 74 c.p.p. e 185 c.p.
prevedono che, ai fini delle restituzioni e del risarcimento del danno, la
legittimazione attiva spetta al danneggiato (o successori universali) dal
reato, quella passiva all'imputato ed al responsabile civile, ossia al soggetto
che, in base alle leggi civili, deve rispondere per il fatto del colpevole.
Presupposti
sono la commissione di un reato, l'esistenza dì un
danno patrimoniale o non patrimoniale quale conseguenza diretta ed immediata
dal reato, la sussistenza di una responsabilità disciplinata dalla normativa civilistica in capo a soggetto diverso dal colpevole.
Il richiamo
alla disciplina menzionata evidenzia come l'ente chiamato a
rispondere nel processo penale ai sensi del d.lg. 231
non può essere soggetto passivo di una pretesa risarcitoria
diretta avanzata dalla parte civile.
Esso, infatti,
non è né l'autore del reato né soggetto che, sulla base del detto d.lg., può essere chiamato a
rispondere civilmente per il fatto del colpevole.
Quest'ultima responsabilità potrà sussistere, ove ne
ricorrano i presupposti, “nella veste di
responsabile civile ed in base alla disciplina appositamente
dettata dal codice per quest'ultimo soggetto
processuale”.
2. Le
disposizioni del d.lg. 231
In più punti la
normativa in questione parla di “responsabilità amministrativa”:
nell'intitolazione del Capo I, delle Sezioni I e III,
del Capo III; negli artt. 2, 3, negli artt. 9, 22, 34, 36, 37, 38, 43, 44, 45, 55, 56, 58, 59,
60, 61, 62, 63, 66, 69, 71, 74, 78, 83, 85, nonché
negli artt. 1, 2, 3, 4, 7 delle relative disposizioni
regolamentari (norme tutte dove si parla di illeciti
amministrativi dipendenti da reato e di sanzioni amministrative).
Secondo i
Giudici, “accertata la detta
responsabilità amministrativa non vi è spazio perché l'ente, sulla base della
stessa, possa essere chiamato a rispondere civilmente per le restituzioni od il
risarcimento del danno. Sicuramente non può farlo sulla base degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. in quanto, lo si ripete, l'ente non è autore del reato ma di
un comportamento differente e ben distinto dal medesimo”.
Questa distinzione emerge con tutta evidenza dagli artt. 5 e 6 del decreto laddove vengono individuati i soggetti che, commettendo il reato, fanno scattare la responsabilità dell'Ente e gli oneri a carico di quest'ultimo per evitare la condanna.
Con tutta evidenza, il d.lg.
231 da un lato non prevede né richiama l'istituto della costituzione di parte
civile: “fatto significativo posto che la detta normativa
disciplina molteplici istituti paralleli a quelli penali e processuali (si
pensi, ad esempio, al principio di legalità, alla successione delle leggi, al
sistema sanzionatorio, a quello cautelare, alla
prescrizione, alla contumacia, alle fasi delle indagini preliminari e
dell'udienza preliminare, ai riti speciali), d'altro lato specifiche
disposizioni di legge che nella legge processuale penale menzionano la parte
civile, o comunque ad essa fanno riferimento, sono ribadite nel decreto in
questione senza alcun riferimento a quest'ultimo
soggetto processuale”.
L'art. 54 del
decreto (sequestro conservativo), prevede che la misura cautelare de qua possa
essere richiesta dal PM in relazione alla dispersione
delle garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria: l’omologo art. 316 c.p.p. consente analoga richiesta anche alla parte civile
in relazione alle obbligazioni civili derivanti da reato.
L'art. 54 non
solo non prevede alcun potere in capo alla parte civile ma, nel richiamare
espressamente la disciplina del sequestro conservativo del c.p.p., con riferimento all'art. 316 c.p.p.
limita il richiamo al relativo quarto comma, omettendo il comma secondo (ossia
quello che consente la richiesta anche alla parte civile) ed il comma terzo
(che stabilisce che il sequestro richiesto dal Pm
giova anche alla parte civile).
Si tratta di norme dirette a garantire il
soddisfacimento della pretesa civilistica, ossia il
risarcimento: “il fatto che non siano ribadite nel d.lg. 231 non può essere considerata una mera dimenticanza
del legislatore: si tratta invero di una precisa ed inequivocabile scelta
legislativa nel senso di non prevedere nel procedimento in questione la parte
civile”.
Né può dirsi
che la lacuna è colmabile dall'art. 34, ossia dalla norma affermante che, per
il procedimento relativo agli illeciti amministrativi
dipendenti da reato, si osservano le norme previste dal Capo III del decreto
(relativo al procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni
amministrative) e le disposizioni processuali penali in quanto compatibili.
Da un lato, quest'ultimo inciso comporta che non tutti gli istituti non
previsti dal decreto possano applicarsi "tout court", al procedimento
amministrativo.
Ma vi è di più:
“il concetto di compatibilità
comporta che l'eventuale ricorso all'analogia, o meglio, la trasposizione di un
istituto dalla sede di un corpo normativo ad un'altra debba essere vagliata con
particolare attenzione interpretativa. Questa particolare attenzione determina che la detta trasposizione non è
possibile che venga effettuata in un blocco normativo
in cui alcun cenno, neanche indiretto, vi è all'istituto in questione, anzi,
una delle facoltà più significative attribuita alla parte civile (la detta
possibilità di richiedere il sequestro conservativo) viene addirittura esclusa”.
Ma non solo
nessuna traccia vi è della parte civile nella disposizione relativa
al sequestro conservativo, ma anche in altre norme:
- l’art. 27 sancisce che l'ente risponde con il suo patrimonio o con il fondo comune dell'obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria (nessun riferimento, quindi, al danno risarcibile);
- l'art. 69 prevede che, in caso di condanna, il Giudice applica all'ente le sanzioni e lo condanna al pagamento delle spese processuali. Nessun riferimento al risarcimento del danno, laddove il c.p.p. prevede una articolata normativa in tema di decisione sulle questioni civili (artt. 538 e segg. c.p.p.);
- in tema di archiviazione, poi, l'art. 58 non prevede, così come l'art. 408 comma 2 c.p.p., alcun avviso alla persona offesa della determinazione dei Pm di procedere alla archiviazione del procedimento (laddove la persona offesa è frequentemente anche danneggiata dal reato ed è quindi una potenziale parte civile che ha interesse all'esercizio dell'azione penale onde poi esercitare l'azione);
-
sulla stessa linea si pone
l'art. 61 comma 2 del decreto che stabilisce ciò che deve contenere, a pena di
nullità, il decreto che dispone il giudizio nei confronti dell'ente: alcun
riferimento viene fatto alla indicazione di parti differenti dall'ente, laddove
il corrispondente art. 429 comma primo lettera a) del c.p.p.
stabilisce che oltre alle generalità dell'imputato il decreto deve anche
indicare quelle delle altre parti private (tra cui, appunto, la parte civile).
Particolarmente significativa la norma di cui all'art. 59 del decreto: essa prevede, attraverso il rinvio all'art. 405 c.p.p, che la contestazione da parte del Pm all'ente dell'illecito amministrativo viene effettuata in via ordinaria mediante la richiesta di rinvio a giudizio. Detta contestazione deve contenere gli elementi identificativi dell'ente, l'enunciazione in forma chiara e precisa del "fatto" che può comportare l'applicazione delle sanzioni amministrative. l'indicazione del "reato" da cui l'illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova.
“Da un lato manca
l'indicazione della persona offesa, laddove il corrispondente art. 417 c.p.p. la prevede. Ma ancor più significativo, a conferma della
netta distinzione tra comportamento - non reato addebitabile all'Ente e
comportamento - reato addebitabile alla persona fisica/imputata, è che la norma
distingue espressamente il fatto da cui deriva la responsabilità dell'ente dal
reato. Distinzione che, ovviamente, non è necessaria in tema di responsabilità
penale in quanto vi è corrispondenza e coincidenza tra
fatto e reato, tanto è che l'art. 417 c.p.p. parla di
enunciazione in forma chiara e precisa del "fatto"”.
Infine: il
decreto 231 intitola la Sezione II del Capo III "soggetti,
giurisdizione e competenza" ed in essa non vi è alcuna menzione
della parte civile, differentemente da quanto avviene nel libro I del c.p.p. (parimenti dedicato ai soggetti del procedimento) in
cui vi è compiutamente disciplinata la detta parte.
- La tesi che sostiene l’ammissibilità
della costituzione
A sostegno
della tesi opposta, potrebbero richiamarsi, in primo luogo, le disposizioni del
decreto che prevedono la possibilità per l'ente che abbia risarcito il danno di
ottenere una riduzione della sanzione pecuniaria (art. 12) e di non essere
sottoposto a sanzione interdittiva (art. 17).
Inoltre si
potrebbe fare leva sull’art
35, che estende all’ente sub iudice le
disposizioni processuali relative all’imputato.
Da ultimo, potrebbe
invocarsi l'art. 8 (autonomia della responsabilità dell’ente), sostenendo che negare
la costituzione di parte civile nei confronti dell'Ente significherebbe, nei
casi previsti da detta norma (autore non identificato – estinzione del reato
per cause diverse dall’amnistia), privare il danneggiato della possibilità di
rivalersi nel processo penale.
Queste argomentazioni non sono state recepite nelle ordinanze in commento.
Ad avviso dei Giudici, l’art 35 contiene la
precisazione che la disciplina processuale relativa all’ imputato
è estesa all'Ente solo se compatibile. Questa delimitazione non può essere
intesa unicamente con riferimento a quegli istituti che, evidentemente, non
potrebbero trovare applicazione per gli enti (ad esempio: provvedimenti
limitativi della libertà personale) e per cui, quindi,
non ci sarebbe alcun bisogno di specificarne l'inapplicabilità, ma deve essere
letta alla luce del sistema complessivo e secondo i criteri in precedenza
evidenziati.
In sostanza gli elementi a sostegno
dell'inammissibile esperimento dell'azione civile nei confronti del
responsabile amministrativo sono tali che comportano, appunto,
l'incompatibilità di cui parla l'art. 35 del decreto.
Va aggiunto che l'art. 35 limita il richiamo alle disposizioni processuali, laddove l'art. 185 c.p. non può certamente considerarsi pura norma processuale.
Secondo i
Giudici, infine, la disposizione di cui all’art 8 “conferma la distinzione tra reato e fatto
generatore dell'illecito amministrativo con le conseguenze già ampiamente
evidenziate”.
Va rilevato che il Progetto di riforma della Parte Generale del codice penale, redatto dalla Commissione presieduta dal prof. Grosso, prevedeva espressamente la costituzione di parte civile nei confronti dell’ente, pur non qualificando espressamente tale responsabilità come “penale” (art 18 disp. att. coord.).
(Maurizio Arena)