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La “spersonalizzazione”
nelle organizzazioni complesse e la difficile individuazione dei soggetti
penalmente responsabili. Teorie formale e funzionale a confronto.
Uno dei maggiori problemi che attanaglia il diritto penale dell’impresa è
quello dell’individuazione del soggetto che deve essere considerato
destinatario delle norme penali all’interno delle organizzazioni complesse, le
quali – come noto – rappresentano la modalità più diffusa per operare nel mercato.
E’ opportuno premettere come il sistema penale dell’impresa sia caratterizzato
dalla massiccia presenza dei c.d. reati propri, ossia da quelle fattispecie che
si riferiscono a determinate “tipologie di autore” (es. imprenditore, datore di
lavoro etc.) la cui qualifica soggettiva individua uno specifico disvalore
della condotta, introducendo conseguentemente una vera e propria modalità di
lesione del bene giuridico (1); qualifica soggettiva che, da un punto di vista
relazionale, fonda uno specifico legame di affidamento tra il bene protetto ed
il soggetto che versa in quella specifica condizione personale richiesta dalla
norma (2).
Anche nei casi in cui non ci sia un espresso riferimento a delle
qualifiche soggettive specifiche e sia, invece, presente la formula del reato
comune – solitamente la locuzione “Chiunque” – non può non venire in
considerazione ugualmente la particolare posizione in cui si trovano i soggetti
operanti nella struttura aziendale; posizione in ogni caso “qualificata”
rispetto al bene giuridico (3). Si pensi, solo per fare degli esempi all’art.
437 c.p. (Rimozione od omissione dolosa
di cautele contro infortuni sul lavoro) e all’art. 451 c.p. (Omissione colposa di cautele o difese contro
i disastri o infortuni sul lavoro), reati che non si riferiscono al solo
datore di lavoro, ma a “chiunque” ponga in essere la condotta in essi descritta
(4), ma che in ogni caso “appaiono legati ad una particolare posizione
funzionale presente nell’organizzazione aziendale” (5): in pratica, anche laddove
la fattispecie appaia strutturalmente come un reato comune, sarà comunque
presente quello specifico legame di protezione tra il soggetto operante
nell’impresa ed il bene giuridico (6).
Prima di addentrarci nell’analisi dei criteri elaborati da dottrina e
giurisprudenza per individuare i soggetti penalmente responsabili all’interno
dell’impresa, occorre spendere qualche parola sulla c.d. “spersonalizzazione” a
cui si assiste quando si parla di organizzazioni complesse. Attraverso
un’attenta analisi, infatti, si evince che nell’odierno contesto sociale si ha,
in generale, un netto distacco dagli schemi del c.d. diritto penale “classico”
(7) (monosoggettivo-causale-colpevole) e ciò soprattutto in merito alla
individuazione dei soggetti penalmente responsabili operanti all’interno degli
operatori economici collettivi.
E’ stato opportunamente rilevato come rispetto all’autore del reato – con riferimento al “moderno” diritto penale (8)
– non è più prevalente la figura monosoggettiva, bensì sempre maggiore importanza
ottiene quella plurisoggettiva, ciò
in quanto una delle peculiarità dell’attuale contesto operativo consiste nella dominante collettiva nelle forme di
manifestazione del reato (9). “La responsabilità, infatti, coinvolge
costantemente una pluralità di soggetti che operano in mega-apparati, la cui
configurazione organizzativa incide (…) sugli stessi procedimenti decisionali e
sui meccanismi di distribuzione delle
responsabilità” (10).
Quanto detto è il frutto della
sempre maggiore frammentazione dei
processi decisionali in cui la singola persona fisica non ha più –
diversamente da quanto accade nel paradigma “classico” – il totale controllo
sul fatto di reato (11), appunto perché il singolo è solo uno dei molteplici
anelli della catena decisionale di cui fa parte; si assiste, in pratica, ad un
processo “frammentato” che vede la compartecipazione di più soggetti verso
un’unica decisione, in modo che il singolo individuo perda potere a tutto
vantaggio di una “dimensione organizzativa plurale
e decentrata” (12).
Viene – a tal proposito – in evidenza il concetto di gruppo, quale metodo decisionale in cui più persone interagiscono e
dipendono ognuno dall’altro per il conseguimento di uno scopo comune. Ognuno
dei partecipanti al gruppo ha, infatti, uno specifico ruolo la cui assegnazione ed esplicazione genera aspettative
comportamentali negli altri soggetti: ciascun membro del gruppo si attende che
gli altri svolgano il proprio compito in una determinata maniera, in modo che
l’opera del singolo possa accedere a quella di un altro e cosi via (13). Ogni
individuo ha, quindi, uno specifico compito da svolgere in vista della
decisione finale, la cui ultima non è la somma delle competenze individuali, ma
qualcosa di più, in quanto il gruppo in sé considerato possiede delle
conoscenze superiori a quelle dei singoli, nonché un maggiore ventaglio di
soluzioni alternative a seconda dei problemi di volta in volta scaturenti (14).
Da quanto sopra
risulta come sia impossibile “spiegare” i comportamenti all’interno delle organizzazioni
attraverso lo schema individualistico, talché si dice che l’organizzazione è
capace di esprimere una cultura propria ed un proprio ed apposito piano
strategico ed operativo dai quali si evince la cultura d’impresa, intesa come orientamento strategico di fondo
dell’azienda (15).
E’ per queste ragioni che si deve valutare come positiva la scelta di
assoggettare a sanzioni amministrative-penali le organizzazioni che commettono
determinati reati a causa di una propria e spregiudicata politica d’impresa anche per il solo fatto di non essersi dotati di
appositi modelli organizzativi atti ad evitare che i singoli appartenenti al
gruppo fuoriuscissero dalla legalità (16).
Tutto questo non significa affatto abbandonare l’accertamento di
responsabilità individuali, anche perché – non dobbiamo mai dimenticarlo – le
organizzazioni sono composte da individui, ma, anzi, la responsabilità
dell’impresa si affianca a quelle del singolo quale forma di responsabilità
propria dell’organizzazione in quanto tale. Resta comunque indubbio che in un
simile scenario è opera assai ardua individuare la singola persona fisica
responsabile penalmente; ciò nondimeno è indispensabile, in quanto il principio
della personalità della
responsabilità penale, sancito dall’art. 27 Cost., impone all’interprete di
individuare il soggetto/persona fisica a cui poter rimproverare il fatto proprio
commesso, causalmente orientato verso
la verificazione della lesione o messa in pericolo del bene giuridico (17).
Tale accertamento all’interno dell’impresa – è stato detto – si traduce
nell’individuazione dell’ “effettivo titolare
del potere il cui uso (o mancato uso)
è riconoscibile come la causa dell’offesa arrecata; e, successivamente, se lo
scorretto uso del potere in parola sia, al medesimo soggetto, in concreto rimproverabile (nelle forme del dolo o
della colpa)” (18).
Ecco, allora, che la giurisprudenza e la dottrina hanno cercato di
elaborare dei criteri volti ad individuare i soggetti penalmente responsabili
all’interno dell’impresa che tenessero conto proprio della peculiarità
dell’organizzazione stessa: la compresenza di molteplici soggetti i quali
ognuno ha un ben specifico compito; nonché i rapporti di dipendenza gerarchica
presenti tra i soggetti stessi.
Il fenomeno ha avuto particolari elaborazioni all’interno dell’ambito del
diritto penale del lavoro e specificatamente per l’individuazione dei soggetti
garanti che potessero commettere i reati propri posti a presidio della tutela
dei lavoratori; ovviamente consimili elaborazioni possono essere comunque
estese anche ad altri settori del sistema penale in cui siano presenti le
medesime problematiche.
A contendersi il campo sono due orientamenti: la teoria formale e quella
funzionale.
Secondo la teoria formale il
soggetto penalmente responsabile va individuato verso il <<vertice
aziendale>>, e, più precisamente, l’autore del reato proprio può essere
solo chi riveste una determinata e ben specifica qualifica formale extra-penale
richiamata dalla fattispecie incriminatrice (19). Questo vuol dire che le
qualificazioni soggettive debbano essere intese nel loro esatto significato
privatistico in quanto “sono assunte nelle fattispecie criminose con tutta la
loro pregnanza normativa, con la corona dei poteri e dei doveri che vi
ineriscono” (20). Il riferimento al vertice aziendale è giustificato dal fatto
che essendo l’attività d’impresa possibile fonte di eventi lesivi, il controllo
degli stessi sarà inevitabilmente rimesso a chi detiene i poteri decisionali e
gestionali necessari alla neutralizzazione delle relative fonti di rischio (21).
Secondo gli Autori che aderiscono a questa prima impostazione, inoltre,
nemmeno può dirsi che in tal modo la natura autonoma del diritto penale possa
essere compromessa, cadendo conseguentemente in una mera funzione sanzionatoria
dell’illecito penale, dato che in alcuni settori tale autonomia è “meno spinta”
perché nei settori che maggiormente ci interessano “la repressione penale si
rivolge a situazioni normativamente qualificate, nelle quali il disvalore è inscindibilmente
connesso all’abuso di quei poteri che dalla qualifica traggono origine” (22).
Si aggiunge, ancora, che la teoria funzionale è censurabile perché pregiudica
la tassatività del reato proprio facendo si che i suoi contorni diventino
incerti e piuttosto vaghi (23). Occorre comunque segnalare che l’impostazione
formale è quella nel tempo più risalente e non è difficile scorgere pronunce in
cui si afferma la responsabilità del legale rappresentante, appunto
valorizzando totalmente il dato formale (24).
La teoria funzionale, d’altro
canto, mette in risalto l’autonomia del diritto penale ed assume quali
responsabili all’interno delle organizzazioni complesse chi attualmente ed
effettivamente svolge le funzioni il cui esercizio è indicato dalla norma; in pratica
si valorizzano le mansioni svolte in
concreto (25).
I sostenitori di
questo orientamento innanzitutto mettono in evidenza come un approccio
funzionalistico non pregiudicherebbe affatto la tassatività del precetto penale
– come invece ritengono i “formalisti” – ma darebbe “sostanza” al principio di
legalità, il quale se fosse troppo agganciato alla “forma” non esplicherebbe
appieno la sua funzione di baluardo della garanzia penale (26). Non è mancato,
inoltre, chi ha accusato la teoria formale di essere causa del sorgere di
“responsabilità di posizione” (27), ossia un approccio meramente formale
valorizzerebbe quelle tendenze di semplificazione probatoria volte a ricercare
la responsabilità penale direttamente nei confronti di chi è “formalmente” investito
della qualifica richiesta dalla norma incriminatrice senza peraltro indagare
sulla vera capacità di azione del soggetto stesso. Ecco allora che grazie alla
teoria formale trova facile dimora il brocardo <<qui in re fructuosa versatur, tenetur etiam pro casu >> (28).
A ciò si aggiunga che – sempre secondo i suoi sostenitori – “la teoria
<<funzionale>> risulta più convincente, perché considera
destinatario della norma il soggetto che è in grado di controllare più da
vicino, e con poteri effettivi, la fonte di pericolo” (29). Anche per quanto
riguarda la “meno spinta” autonomia del diritto penale in alcuni settori –
posizione questa propugnata, come si è visto, da qualche Autore (30) che
aderisce all’approccio formale – i “funzionalisti” ribattono sostenendo che la
dottrina oramai respinge le concezioni privatistiche (31) e propende oggi a riconoscere al diritto
penale un carattere autonomo ed originario valorizzando il principio di frammentarietà nei casi in cui il fatto
di reato sia anche un illecito extra-penale: si dice infatti che la norma
penale si caratterizza per essere un illecito
di modalità di lesione (32).
Si sottolinea anche come il diritto penale debba “prendere in
considerazione l’effettiva realtà delle cose, spogliandosi da ogni atteggiamento
formalistico. Ecco perché esso deve tener conto, per ciò che attiene ai
soggetti e alle caratteristiche che li contraddistinguono nei reati propri,
della funzione da essi
effettivamente esercitata piuttosto che del titolo che la definisce: della
sostanza piuttosto che della forma” (33).
A nostro
sommesso avviso la teoria che sembra più consona alle esigenze del diritto
penale ci sembra quella funzionale, in quanto un aggancio esclusivo alla forma
sarebbe sicuramente in contrasto col principio di personalità dato che si
legittimerebbero delle surrettizie forme di responsabilità di posizione.
Non ci convince neanche la più recente impostazione di chi ha cercato di
coniugare le istanze funzionali con quelle formali. Il riferimento è a quella
elaborazione secondo cui la commissione di un reato da parte dei soggetti
partecipanti ad un’organizzazione complessa sarebbe dovuto ad uno scorretto
esercizio dei poteri; occorrerà quindi verificare a quale delle funzioni in cui si articola l’impresa
sia riferibile quello specifico deficit
di sicurezza e di garanzia. Essendo, però, la funzione impersonale è necessario
“tradurre” la stessa in termini di responsabilità personale e colpevole alla
stregua dell’art. 27 Cost., e per fare ciò si dovrà ricercare il ruolo e la persona fisica che lo riveste
al quale sono attribuiti i poteri di governo della funzione stessa. A questo
punto è necessario fare riferimento alla disciplina interna dell’ente –
purché, ovviamente, rappresenti una corretta estrinsecazione della autonomia privata
riconosciuta dalla legge – attraverso la quale rinvenire i ruoli e le persone:
si ha, in buona sostanza, un ripercorrere dell’organizzazione aziendale
attraverso cui risalire agli effettivi titolari dei poteri di controllo (34).
Riteniamo che
tale impostazione, di fatto, coniughi molto poco le due teorie e si rifaccia
perlopiù a quella formale, in quanto si va alla ricerca dei responsabili
tenendo in scarsa considerazione le mansioni di fatto svolte da un soggetto a
prescindere dalla sua formale presenza o meno nella rete aziendale. Inoltre, la
pur condivisibile esigenza di individuare il soggetto in base al ruolo a cui la funzione deficitaria è
riferibile non riesce a mettere in evidenza la titolarità effettiva del ruolo stesso. Ancora, si utilizza quale
parametro “funzionale” un criterio che è tutt’altro che funzionale, ossia la
più che formale disciplina aziendale.
Benché quest’ultima impostazione sia stata, in alcune occasioni, fatta
propria dalla giurisprudenza di legittimità (35), crediamo comunque che
l’individuazione dei soggetti responsabili debba partire dalla formale
qualifica che il singolo riveste, ma ciò non vuol dire che si radichi,
conseguentemente, la responsabilità penale. La qualifica formale dovrà essere
solo il primissimo gradino dell’indagine, ma poi si dovrà verificare se il
formalmente investito sia anche il reale titolare (non tanto della qualifica
ma) dei poteri ad essa inerenti; e per fare consimili accertamenti si dovranno
esaminare esattamente quali fossero in realtà le mansioni svolte dal singolo e se quelle mansioni – con i relativi
poteri – siano o meno riconducibili alla qualifica prevista dalla norma penale.
Ovviamente l’assetto organizzativo-aziendale potrà essere d’aiuto
nell’individuare le posizioni ed i ruoli dei singoli individui, ma si dovrà in
ogni caso verificare se a quelle posizioni “sulla carta” coincidenti con quelle
richieste dalla norma penale corrisponda anche il “reale” corollario di poteri
ad esse inerenti, tale da far collimare la forma con la sostanza.
Non è un caso,
infatti, che anche la giurisprudenza si assesti verso orientamenti che
valorizzano le mansioni svolte in concreto (36).
Alla teoria funzionale va inoltre il merito di essere riuscita a far
affermare la teorica sull’amministratore
di fatto, ossia un soggetto privo della qualifica formale – quest’ultima è
in capo ad una c.d. “testa di paglia” – ma che, di fatto, possiede i poteri
necessari per guidare e gestire l’impresa (37).
Mancando nel nostro ordinamento – diversamente da quanto accade in altri
contesti, quali ad esempio quello inglese o quello francese – qualsiasi
clausola generale di equiparazione tra amministratore di diritto e quello di
fatto e stante il divieto di analogia in materia penale (38), il primo
intervento legislativo volto a dare cittadinanza all’amministratore di fatto è
stata
A seguito
dell’intervento dell’art. 1 del d.lgs. 11-4-2002, n. 61, con cui si è
modificato tutto il titolo XI del codice civile (Disposizioni penali in materia di società e di consorzi) anche il
nostro ordinamento si è dotato di una norma in grado di mettere sullo stesso
piano amministratori di diritto e quelli di fatto, e precisamente si tratta
dell’art. 2639 c.c. (Estensione delle
qualifiche soggettive) secondo il quale è equiparato al soggetto
formalmente investito della qualifica richiesta ai fini dell’integrazione della
fattispecie di reato anche <<chi è tenuto a svolgere la stessa funzione,
diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo
i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione>>.
A onor del vero già lo <<Schema Vassalli-Pagliaro>>, nel
1992, aveva previsto all’art. 9 comma 1 che <<quando la legge penale
indica il soggetto attivo mediante una qualifica soggettiva, che implichi la
titolarità di un dovere o potere giuridico, essa ha come destinatario il
formale titolare della stessa o chi, mediante l’esercizio di fatto di
un’attività, è divenuto titolare di tali doveri o poteri giuridici>>.
Anche l’articolato elaborato dalla Commissione Grosso ha dato rilevanza
alle mansioni di fatto svolte da un soggetto, ed infatti all’art. 25 si
stabilisce che è tenuto ad attuare modelli organizzativi idonei ad evitare
reati commessi per inosservanza di disposizioni inerenti all’attività di
organizzazione (art. 24, comma 1) non solo chi per legge o statuto ha il potere
di direzione dell’organizzazione, ma anche <<chi, pur senza averne il
potere formale, dirige di fatto l’organizzazione>>.
Come si vede non
solo i Progetti di riforma del codice penale, ma anche il Legislatore stesso
(con la legge bancaria prima, e con la riforma dei reati societari poi) hanno
dato rilevanza alla teoria funzionale, ma soprattutto hanno mostrato come il
diritto penale respiri con i propri polmoni e che esso non deve fermarsi alla
forma, ma scovare la sostanza.
(Nicola Bramante)
1) Si veda in argomento VENAFRO, Reato proprio, in Dig. Disc. Pen., XI, Torino, 1996, pp. 337 ss.
2) Cfr. FIORELLA, Reo, in EGI, XXVI, Roma, 1991, p. 5; condivisibile, a nostro avviso, è quanto affermato dal CADOPPI, Il reato omissivo proprio, Padova, 1988, p. 773, per sottolineare lo stretto legame intercorrente tra il bene protetto e il soggetto titolare della qualifica soggettiva, ossia utilizzare il concetto di <<posizione di garanzia>> - nato, nell’elaborazione dottrinale in tema di reati omissivi impropri – anche nel settore di reati omissivi propri.
3) ALESSANDRI, Impresa (Responsabilità penale), in Dig. Disc. Pen., V, Torino, 1992, p. 200
4) E’ stato
opportunamente rilevato come il Legislatore abbia dato particolarmente
importanza alla tutela delle condizioni di lavoro, talché si è ritenuto opportuno “suggerire lo stigma penale ogniqualvolta le
cautele di legge siano rimosse o anche solo semplicemente dimenticate e non vi
sia da parte del soggetto obbligato l’adozione di rimedi sostitutivi comunque
sufficienti a prevenire gli eventi
descritti dalle fattispecie” (MUSCATIELLO, La
tutela altrove. Saggio sulla tutela dell’homo faber nel codice penale, Torino, 2004, p. 82).
5) BAIMA BALLONE, La delega di funzioni e il problema dei soggetti responsabili nel diritto penale dell’impresa, in ROSSI (cura di), Reati societari, Torino, 2005, p. 105
6) Il
fenomeno è riscontrabile, soprattutto, nei c.d. reati comuni commissivi
mediante omissione (omissivi impropri) non espressamente tipizzati dal
Legislatore ma che nascono dal combinato disposto della clausola generale
dell’art. 40 cpv c.p. con la singola fattispecie incriminatrice di un
comportamento positivo, qualora sussista in capo a certi soggetti “garanti” un
obbligo giuridico di impedire un evento.
7) Sulle differenze tra il paradigma classico e quello moderno del sistema penale, fondamentale è lo studio del PALIERO, L’autunno del patriarca. Rinnovamento o trasmutazione del diritto penale dei codici?, in RIDPP, 1994, pp. 1225 ss.,
8) Giova
ricordare come la discussione sul diritto penale “moderno” sia il frutto
dell’intuizione della scuola penalistica francofortese ed è sintomo della diversità sociale, culturale ed
economica del nostro tempo, rispetto a quello illuministico in cui fu elaborato
il c.d. diritto penale “classico”; a tal proposito si vedano i fondamentali
lavori di HASSEMER, Kennzeichen und
Krisen des modernen Strafrechts, pp.378ss., in ZRP, 1992; ID., Produktverantwortung
im modernen Strafrecht, pp. 3 ss.. Heidelberg, 1994; nella letteratura
spagnola, si veda SILVA SANCHEZ, L’espansione
del diritto penale. Aspetti della politica criminale nelle società
post-industriali, a cura di MILITELLO, trad. it. di , La expansiòn del derecho penal. Aspectos de la politica criminal en las
sociedades postindustriales, Milano 2004; nella letteratura italiana si
veda, soprattutto PALIERO, L’autunno del
patriarca, op. cit.
9) Per questi rilievi si vedano PALIERO, La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la <<Parte generale>> di un codice penale dell’Unione Europea, in RIDPP, 2000, p. 508; PIERGALLINI, Danno da prodotto e responsabilità penale. Profili dommatici e politico-criminali, Milano, 2004, pp. 301 ss.
10) PIERGALLINI, op. ult. cit., p. 302
11) Salvo – gli ormai rari – casi in cui su un unico soggetto è accentrato tutto il potere decisionale
12) PIERGALLINI, op. ult. cit., p. 312; cfr. anche PERRONE, Le strutture organizzative d’impresa, Milano, 1990, pp. 366 ss.
13) TOSI-PILATI-MERO-RIZZO, Comportamento organizzativo. Persone, gruppi, e organizzazione, Milano, 2002, pp. 100 ss.
14) BONAZZI, Dire fare pensare. Decisioni e creazioni di senso nelle organizzazioni, Milano, 1999, pp. 197 ss.; per questi rilievi cfr. anche PIERGALLINI, Danno da prodotto, cit., pp. 328
15) BASTIA, Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità amministrativa delle aziende, in Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, a cura di PALAZZO, Padova, 2003, pp. 35 ss.
16) Il riferimento è al D.L.vo 8 giugno 2001, n. 231, che ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento un’autonoma responsabilità amministrativa (penale?) delle persona giuridiche accanto a quelle penali dei singoli componenti, limitando, di fatto, il noto brocardo “societas delinquere non potest”.
17) E’
questa l’interpretazione dell’art. 27 Cost. datane dalla Corte costituzionale a
seguito della nota sentenza n. 364 del 1988, attraverso la quale si è superata
l’interpretazione “riduttiva” del medesimo fondamentale articolo in cui il solo
limite che si individuava consisteva nel divieto di responsabilità per fatto
altrui, con ciò – di fatto – legittimando lo schema della responsabilità
oggettiva, attraverso il quale era facilmente mascherabile il caso di
responsabilità di posizione. Con la predetta sentenza
18) ALESSANDRI,
in AA.VV., Manuale di diritto penale
dell’impresa. Parte generale e reati fallimentari, Bologna, 2003, pp. 55-56
19) Cfr. PEDRAZZI, Gestione d’impresa e responsabilità penali, in Riv. Soc., 1962, p. 220; PULITANO’, Posizioni di garanzia e criteri d’imputazione personale nel diritto penale del lavoro, in Riv. Giu. Lav., 1982, p. 180; ALESSANDRI, voce Impresa p. 193, cit.; PADOVANI, Reato proprio del datore di lavoro e persona giuridica, in RIDPP, 1979, p. 1170; ID. Diritto penale del lavoro. Profili generali, Milano, 1983; STORTONI, Profili penali delle società commerciali come imprenditori, in RIDPP, 1971, p. 1163
20) PEDRAZZI, Gestione d’impresa, cit., p. 229
21) GRASSO, Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, pp. 426 ss.
22) ALESSANDRI, voce Impresa, cit., p. 204
23) STORTONI, Profili penali, cit., pp. 1170 ss.; v. altresì PADOVANI, Reato proprio, cit., p. 1183; secondo questi due Autori, inoltre, la teoria funzionale comporterebbe uno scivolamento verso il basso della responsabilità penalmente rilevante dato che ad essere maggiormente pregiudicati non sarebbero coloro che hanno il potere ma chi è, invece, soltanto un mero esecutore
24) Un
esempio ci viene offerto da quella pronuncia per cui nel “caso di società
commerciali regolarmente costituite, all’osservanza delle leggi sul lavoro e
sulle assicurazioni sociali come in ogni altra norma, sono tenuti i
rappresentanti legali della persona giuridica”, Cass. 21-1-
25) Cfr.
PAGLIARO, Problemi generali del diritto
penale dell’impresa, in Ind. Pen.,
1985, p. 17; FIORELLA, Il trasferimento
di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Firenze, 1985; SMURAGLIA, La sicurezza sul lavoro e la sua tutela
penale, Milano, 1974; GRASSO, Organizzazione
aziendale e responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, in Arch. Pen., 1982, p. 744; BONINI, Soggetti penalmente responsabili all’interno
dell’impresa e delega di funzioni alla luce dei d.lgs. n. 626 del 1994 e n. 242
del
26) Cfr. PAGLIARO, Problemi generali, cit., p. 21, il quale afferma che la teoria funzionale lungi dal pregiudicare il principio di tassatività piuttosto “attribuisce al principio di legalità quel significato sostanziale che corrisponde alle esigenze del diritto penale”.
27)
FIORELLA, Il trasferimento di funzioni
nel diritto penale dellìimpresa, Firenze, 1984
28) BONINI, Soggetti penalmente responsabili, cit., p. 268
29) BONINI, ibidem
30) ALESSANDRI, voce Impresa, cit., p. 204
31)Nota è la posizione del GRISPIGNI, Diritto penale italiano, I, Milano, 1952, il quale aderisce all’impostazione di Karl Binding secondo il quale il diritto penale avrebbe una mera funzione accessoria/sanzionatoria, in quanto ogni azione penalmente illecita sarebbe già vietata in precedenza da altra norma di diritto privato o di diritto pubblico.
32) Per tale ultimo rilievo FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, pt. Generale, Bologna, 2001, p. 36
33) CONTI, Disposizioni penali in materia di società e di consorzi, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a cura di GALGANO, Libro V: Lavoro art. 2621-2642, Bologna-Roma, 2004, p. 23; il medesimo Autore ritiene che vi sia conferma dell’approccio “funzionalistico” (prevalenza della sostanza sulla forma) anche negli artt. 357 e 358 del codice penale che indicano i criteri per individuare i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio.
34) ALESSANDRI, Manuale, cit., p. 61
35) Si veda
in particolare Cass. 26-2-
36) V. ad
esempio Cass. 22-3-
37) Per
alcuni rilievi critici su questa figura, peraltro superabili con quanto detto
nel testo sulla preferenza della teoria funzionale su quella formale, si veda
PEDRAZZI, Gestione d’impresa, cit.,
pp. 220 ss.; ROMANO M., Profili
penalistici del conflitto di interessi dell’amministratore di società per
azioni, Milano, 1967, p. 22. Altri Autori hanno invece segnalato che
l’amministratore di fatto sarebbe una contraddizione in termini dato che può
essere considerato amministratore soltanto chi opera attraverso una formale
investitura dell’atto costitutivo o dell’assemblea (COTTINO, Diritto commerciale, I, Padova, 1994, p.
525).
38) Occorre
comunque segnalare che la giurisprudenza era pacifica nel dare rilevanza alla
figura dell’amministratore di fatto; si veda a tal proposito Cass. 15-5-
39) Testo modificato dall’art. 9. 43 del d.lgs. 17-1-2003 n. 6, così come inserito dall’art. 2 del d.lgs. 6-2-2004, n. 37