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D.lg. 231 e revisione dei conti: una questione controversa

La Sezione V rinvia la questione alle Sezioni Unite

 

Il Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Milano, dott. D'Arcangelo, con sentenza del 3 novembre 2010, si è occupato del problema relativo alla riconducibilità del reato di “Falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale” al catalogo dei reati-presupposto della responsabilità amministrativa degli enti.

Essendo statala fattispecie incriminatrice di cui all'art2624 c.c. abrogata e sostituita da quella ex art. 27 del D.Lgs. n. 39/2010 (revisione legale dei conti) e non avendo il legislatore integrato il catalogo dei delitti enunciato dal D.Lgs. 231, si poneva il dubbio circa l’applicabilità dell’art. 25-ter lett. g), che a tale delitto fa riferimento.

Ebbene, la soluzione adottata dal Giudicante ribadisce la necessità di escludere ogni “interpretazione utile” di fronte al principio di stretta legalità.

D'altra parte, secondo una consolidata ermeneusi, dalla quale non vi è ragione per discostarsi, l'elencazione dei delitti presupposto, ai sensi dell'art. 2 D.Lgs. 231/01, è tassativa e, pertanto, non è suscettiva di integrazione a mezzo della contestazione di delitti equipollenti o della artificiosa frammentazione di elementi costitutivi del delitto composto.

Partendo dalla considerazione che l’illecito dell’ente è strutturato su una fattispecie complessa costituita sul piano oggettivo da due elementi essenziali, costituiti dalla realizzazione di un reato-presupposto da parte di un soggetto che abbia un rapporto qualificato con la persona giuridica e dalla commissione del reato stesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente; aggiungendo che va considerato l’elemento “soggettivo” della colpa di organizzazione, diversamente connotato a seconda che il delitto presupposto sia stato commesso da un soggetto in posizione apicale o sottoposto all’altrui vigilanza e direzione, il G.U.P. conclude evidenziando che il principio di legalità dell’illecito amministrativo dipendente da reato opera sotto un doppio profilo, investendo sia la fattispecie ascrittiva della responsabilità dell’ente (nei suoi profili oggettivi e soggettivi), sia il reato che ne costituisce il substrato.

È in tale contesto che deriva la circostanza che ogni deficit della fattispecie del reato presupposto si ripercuote inevitabilmente sulla integrazione di responsabilità dell’ente, precludendone così il perfezionamento. Pertanto, ove il legislatore avesse inteso mantenere tra i reati che fondano la responsabilità dell'ente la fattispecie di falsità nella revisione contabile avrebbe dovuto novellare l'art. 25 ter lett. g) D.Lgs. 231/01 o, comunque, integrare il catalogo dei reati presupposto, facendo riferimento espresso al delitto di cui all'art. 27 del D.Lgs. 27.1.2010 n. 39.

Quanto alla presunta continuità del tipo di illecito tra il delitto di cui all'art. 27 del D.Lgs. n. 39 ed il delitto di cui all'art. 2624 c.c., occorre considerare il disposto di cui all’art. 3 D. lgs. 231.

In sostanza, il G.U.P. fa presente che il primo comma dell’art. 3 ha inteso equiparare l’ipotesi di abolitio criminis del delitto presupposto a quella di abrogazione della disposizione che ricollega ad un reato la responsabilità dell’ente.

In tale ultima ipotesi, infatti, la norma che contempla il reato presupposto permane (anche nella forma della continuità nel tipo di illecito ai sensi dell'art. 2, comma terzo, c.p.) ma l'ente non è più tenuto a rispondere dell'illecito amministrativo che accedeva alla pregressa fattispecie incriminatrice, in quanto il legislatore non ricollega più alla fattispecie criminosa alcuna responsabilità da reato per l'ente.

La dedotta continuità normativa tra il delitto di cui all’art. 2624 c.c. e quello delineato dall’art. 27 del D.lgs. n. 39, insomma, non basta. Ciò che manca è una continuità sotto il profilo delle fattispecie ascrittive della responsabilità da reato dell’ente, in quanto il menzionato art. 27 (al pari del previgente art. 174-bis del T.U.F.) non contempla alcuna forma di responsabilità per l’ente per la falsità nella revisione contabile.

Del resto, l'art. 3 del D.Lgs. 231/01 stabilisce con nitore che nelle ipotesi di successione di leggi che disciplinano la responsabilità ex crimine degli enti, nel conflitto tra la nuova e la pregressa disciplina, si applica la prima e che non è ammesso alcun fenomeno di ultrattività della norma successivamente abrogata (tanto più ove sfavorevole all'ente).

In definitiva viene ribadita l’assoluta necessità di rispettare il principio di tipicità (e, quindi, di legalità) con riferimento ai reati-presupposto, al fine di non stravolgere l’operato (o il mancato operato) del legislatore mediante un’opera di sostituzione alle funzioni di quest’ultimo, esercizio dai risvolti quanto meno pericolosi.

Pertanto, ancora una volta non può che ribadirsi la infondatezza di opzioni ermeneutiche intese ad arricchire il catalogo dei delitti presupposto in assenza di un espresso intervento del legislatore. Alla stregua dei rilievi che precedono la domanda di giudizio formulata dalla Pubblica Accusa deve essere disattesa, non essendo più prevista la responsabilità amministrativa da reato degli enti in relazione a condotte di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni dei responsabili della revisione legale.

Nei confronti della sentenza in esame proponeva ricorso per cassazione la Procura della Repubblica.

Ebbene, la Corte di Cassazione, sezione V, con ordinanza depositata in data 8 marzo 2011, ha rimesso la questione al vaglio delle Sezioni Unite, al fine dirimere il potenziale contrasto giurisprudenziale e prospettando la sostenibilità della tesi opposta rispetto a quella sposata dal G.U.P.

Il preciso ancoraggio al reato individuato nella fattispecie complessa indurrebbe a ritenere che il rinvio ad essa sia di natura formale e non mobile e quindi non destinato a seguire tutte le modificazioni della disposizione; tanto più che anche l'art. 25-ter espressamente richiama "i reati in materia societaria previsti dal codice civile".

Nella medesima prospettiva interpretativa, sembra essersi orientata già la ancora scarsissima giurisprudenza di questa Corte, con la sentenza Rimoldi del 2009 (Sez. 2, sentenza n. 41488 del 29/09/2009 c.c. (dep. 28/10/2009) Rv. 245001), citata anche nella sentenza impugnata, relativa ad una ipotesi di responsabilità dell'ente, configurata con riferimento alla contestazione, al rappresentante dell'ente stesso, di una ipotesi di frode fiscale in concorso con quella di truffa aggravata ai danni dello Stato, capace,tuttavia, la prima, in base alla giurisprudenza ormai in via di consolidamento, di assorbire la seconda. Ebbene, ha osservato la Corte che il principio di legalità, nella specie, vietava di effettuare operazioni che si risolvessero nella sostituzione, alla formulazione del precetto sanzionato (cioè l'art. 24 d.lgs. n. 231 del 2001, che prevedeva appunto la responsabilità dell'ente in relazione alla contestazione, al rappresentante, del delitto di truffa aggravata), di una fattispecie normativa (quella di frode fiscale, destinata come detto a prevalere sulla truffa) che lo stesso legislatore non ha autonomamente ed espressamente posto a base della stessa previsione di responsabilità.

Rilevante pure – ancorchè non concernente il D.lgs. 231 – Cass., V, 19 settembre 2005 n. 45714, secondo cui il reato di falso in prospetto, previsto dall'art. 2623 c.c. , nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 61/2002, non rientra nel novero delle fattispecie di reati societari la cui consumazione costituisce requisito per la integrazione del delitto di cui all'art. 223 legge fallimentare, e quindi la corrispondente condotta non è più prevista come reato di bancarotta fraudolenta impropria societaria.

In altri termini, nonostante la perdurante rilevanza penale del falso in prospetto, prima e dopo la novella del 2002, e quindi la "continuità normativa" pacificamente sussistente al riguardo, la Corte ha affermato che la modifica nella formulazione dei reati societari del codice civile aveva in quel caso inciso sulla configurazione del reato di bancarotta fraudolenta impropria, costruito mediante un richiamo formale a ciascuno dei reati societari di interesse per il legislatore: con l'effetto che quel richiamo doveva, nella materia presa in considerazione, ritenersi "contratto", ossia avere perso, a causa del mancato espresso richiamo dell'art. 2623 cc nella norma dell'art. 223 , la possibilità di ritenersi esteso alla disposizione che, di fatto, aveva dato un diverso rilievo formale alla condotta del falso in prospetto, senza affatto abrogarla.

In entrambi i casi giurisprudenziali sopra citati sono state operate scelte interpretative che hanno ritenuto cogente la "tecnica di formulazione" della ipotesi attributiva di responsabilità ed hanno escluso, viceversa che potesse prevalere su questa l’individuazione, ad opera dell'interprete, di un legame sostanzialistico tra il precetto complesso contenente il richiamo ad altra norma penale e la "norma" stessa, a prescindere cioè dalla "disposizione" che formalmente la contenga.

Inoltre, aggiunge la Corte, v'è da tenere conto, dal punto di vista sistematico, dell'effetto paradossale della interpretazione sopra prospettata:

e cioè il fatto che la interpretazione abolitrice della fattispecie di responsabilità dell'ente da falso in revisione, compresa la revisione alle società quotate in borsa, comporterebbe il venire meno di una ipotesi di responsabilità per fatti assai gravi, mentre fatti molto meno gravi, come la ipotesi di impedito controllo realizzata in una società non quotata ai danni di un singolo socio (art. 2625 cc ancor oggi richiamato dall'art. 25 ter lett. h) d.lgs. n. 231 del 2001) è rimasta in vigore.
Un paradosso che invero taluni hanno già attribuito, piuttosto che ad una svista del legislatore, ad una possibile volontà di deresponsabilizzazione delle società di revisione.
Ed una simile conclusione sarebbe asseverata anche dal rilievo che il legislatore del 2005, allorchè - oltre a creare la fattispecie dell'art. 174 bis che inserì nel TUF - istituì la fattispecie dell'art. 2629 bis cc (reato di omessa comunicazione del conflitto di interessi), solo la seconda e non anche la prima inserì nel catalogo dei reati-presupposto per la responsabilità amministrativa dell'ente (art. 25 ter lett. r) d.lgs. n. 231 del 2001).

Invero, la tesi contraria, è ritenuta anch’essa plausibile, in quanto basata sul rilievo che il fatto-reato della falsità in revisione legale non ha mai perso rilevanza penale perché, contemporaneamente alla sua formale abrogazione, è rifluito nella fattispecie del citato art. 27.

Con la conseguenza che non troverebbe applicazione il disposto dell'art. 3 del decreto del 2001, il quale esclude la responsabilità dell'ente "per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisce più reato", sempre che, come nella fattispecie, la norma sulla responsabilità amministrativa per quel fatto non sia stata essa stessa abrogata dalla legge successiva.
E, come invita a fare una parte della dottrina, ben potrebbe sostenersi che il rinvio contenuto nell'art. 25 ter d.lgs. n. 231 del 2001, al pari di altre analoghe formulazioni normative, è da intendersi riferito non alla formale fattispecie penal-societaria materialmente citata, ma al suo contenuto, anche se esso venga trasposto in altra sedes materiae e sempre che, ovviamente, possa registrarsi una invarianza della fattispecie di reato presupposta.

In particolare deve darsi atto che le norme contenute nell'art. 27, ai primi due commi sono esattamente sovrapponibili a quelle dell'art. 2624 c.c. richiamato dall'art. 25-ter del decreto del 2001. Se ne potrebbe pertanto desumere che l’ipotesi di responsabilità amministrativa contestata all'ente ex art. 25-ter è rimasta vigente anche dopo la novella del 2010.

(Maurizio Arena)



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