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Decreto 231 e reati societari: il nuovo art 25-ter

La legge 27 maggio 2015 n. 69 ("Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio"), in vigore dal 14 giugno 2015, modifica, tra l'altro, l'art 25-ter del d.lg. 231/2001.          

Riassuntivamente, a carico dell'ente sono applicabili:

- per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dal (nuovo) art 2621 c.c. la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote;

- per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dal (nuovo) art 2621-bis c.c., la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote;

- per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dal (nuovo) 2622 c.c., la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote.

Interessa in questa sede soprattutto rilevare la sostituzione dell'alinea dell'art 25-ter: In relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, se commessi nell'interesse della societa', da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza, qualora il fatto non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformita' degli obblighi inerenti alla loro carica, si applicano le seguenti sanzioni pecuniarie ...

con il seguente:

In relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie...

Tale riformulazione fa venir meno le numerose questioni interpretative sorte in relazione al previgente testo, rimasto in vigore per tredici anni.

In definitiva il testo dell'art 25-ter viene allineato agli altri della c.d. parte speciale, limitandosi a prevedere l'entità della sanzione pecuniaria a carico dell'ente in relazione alla commissione dei reati societari.

Giova comunque riassumere le questioni sollevate dal precedente testo.

Il precedente testo dell'art 25-ter: il criterio dell'interesse

Il previgente art. 25-ter non si limitava ad introdurre disposizioni sull’entità delle sanzioni alle società in relazione ai reati societari, ma interveniva anche sulla “parte generale” dell’illecito amministrativo dell’ente: precisamente sul criterio di imputazione oggettiva dell’illecito e sui soggetti che potevano impegnare la società sotto il profilo sanzionatorio.

L’art. 25-ter parlava di reato commesso “nell’interesse” della società, a differenza del criterio generale che attribuisce rilevanza al reato commesso “nell’interesse o a vantaggio” dell’ente (art 5).

A suo tempo, in relazione al criterio della commissione del reato “nell’interesse della società” è stata espressa un’obiezione anche nel parere fornito dalla Commissione Giustizia del Senato (19 marzo 2002), che è opportuno riportare integralmente:

…al nuovo articolo 25 ter del decreto legislativo n. 231 del 2001 si suggerisce di sopprimere le parole ‘se commessi nell’interesse della società da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza qualora il fatto non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica’.
Questa parte della disposizione infatti appare pleonastica, in quanto meramente ripetitiva di quelli che sono i presupposti soggettivi della responsabilità dell’ente, che sono già compiutamente e articolatamente disciplinati negli articoli 5,6, e 7 dello stesso decreto legislativo. A conferma di ciò è sufficiente rilevare che l’intervento soppressivo suggerito renderebbe il testo del nuovo articolo 25 ter del tutto omogeneo a quello dei vigenti articoli 24, 25 e 25 bis dello stesso decreto legislativo n. 231 e risulterebbe naturalmente coerente con la norma di delega che impone di prevedere la responsabilità degli enti in materia societaria ‘nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi contenuti nella legge 29 settembre 2000 n. 300 e nel decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231”.

Tuttavia, a ben vedere, l’unico criterio davvero rilevante per ritenere responsabile l’ente è proprio quello dell’interesse: il vantaggio conseguito da un reato (comunque oggetto di confisca obbligatoria) non impegna l’ente sul piano sanzionatorio, se il reato è stato commesso nell’interesse esclusivo dell’autore o di terzi (cfr. art. 5 comma 2 d.lg. n. 231).

Il precedente testo dell'art 25-ter: il contenuto della culpa in vigilando

La formulazione contenuta nel previgente art. 25-ter in relazione ai reati commessi dai c.d. sottoposti (“qualora il fatto non si fosse realizzato se essi – i soggetti di vertice, ndr – avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica”) suscitava inoltre l’interrogativo se il criterio in questione fosse sostitutivo rispetto a quello consistente nell’adozione ed efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione (art. 7), ovvero complementare rispetto ad esso.

In altri termini: per i reati societari si poteva ritenere sufficiente una generica culpa in vigilando dei soggetti di vertice, oppure occorreva una specifica negligenza degli stessi, consistita nella mancata adozione ed attuazione dei compliance programs?

È stato infatti sostenuto (Lanzi) che nell’ipotesi di falso in bilancio commesso dagli amministratori, la responsabilità della società nel cui interesse (anche solo parziale) quel reato è stato compiuto sarebbe in re ipsa, senza la possibilità di invocare modelli di organizzazione e di gestione finalizzati a prevenire quegli stessi illeciti.

Il precedente testo dell'art 25-ter: l'onere probatorio ex art 7

V’era poi un’altra possibile peculiarità connessa al criterio di imputazione soggettiva per i reati commessi dai sottoposti, rispetto all’art. 7 del Decreto Legislativo.

Tale ultima disposizione pone a carico dell’accusa l’onere di dimostrare che la commissione del reato da parte del sottoposto è stata resa possibile dalla carenza di vigilanza da parte dei soggetti posti in posizione apicale.

Ebbene: l’art. 25-ter sembrava aggravare l’onere probatorio, richiedendo la dimostrazione positiva che il fatto non si sarebbe verificato qualora gli obblighi di vigilanza fossero stati osservati.

Ad una prima impressione, sembrava quindi possibile alla difesa dell’ente ottenere il proscioglimento “semplicemente” allegando che il reato si sarebbe ugualmente verificato anche se gli organi di vertice avessero vigilato”(Iannini-Armone).

Il precedente testo dell'art 25-ter: i soggetti che possono impegnare l'ente

Infine, andava evidenziata la differente individuazione delle persone fisiche che potevano coinvolgere la società, operata dall’art. 25-ter, rispetto alla disciplina generale posta dal Decreto Legislativo n. 231 (art 5).

Si parlava di “amministratori, direttori generali e liquidatori” per la categoria degli apicali e di “persone sottoposte alla loro vigilanza” per i dipendenti.

Non si poteva non rilevare la non perfetta coincidenza con i soggetti contemplati dall’art. 5, che, come è noto, fa riferimento alle “persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa”; alle “persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo”; e, per i sottoposti, alle “persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza (degli apicali)”.

Tuttavia ciò che colpiva davvero è che l’art. 25-ter non considerava espressamente la gestione di fatto.

In questo senso anche il menzionato parere della Commissione Giustizia del Senato, il quale rilevava che

la formulazione che lo schema propone potrebbe ingenerare dubbi sul piano interpretativo, in quanto potrebbe essere anche letta come limitativa dei presupposti di responsabilità dell’ente (si osservi, ad esempio, come essa letteralmente non preveda la responsabilità dell’ente, nel caso in cui il reato sia commesso da chi esercita di fatto la gestione dello stesso, essendo però un tale risultato in contrasto non solo con il sistema delineato nei citati articoli 5, 6 e 7 del decreto legislativo, ma anche con la direttiva di delega risultante dalla lettera e) dell’art. 11 della legge n. 366 del 2001.

Tutti i problemi evidenziati sono oggi superati dal nuovo testo dell'art 25-ter, alla luce della formulazione sopra riportata, che rinvia implicitamente ai principi generali di cui agli artt. 5, 6 e 7.

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