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Il D.lg. 61 del 2002 - già esaminato in questa Rivista - sostituisce per intero, come è noto, il Titolo XI del libro V del codice civile (Disposizioni penali in materia di società e consorzi).
L'art 3, poi, sostituisce la rubrica della Sezione III del d.lg. 231 del 2001, la quale non recità più "Responsabilità amministrativa per reati previsti dal codice penale", ma "Responsabilità amministrativa da reato".
Tale modifica si è resa necessaria, in quanto l'originario titolo non era formalmente idoneo a ricomprendere le ipotesi di responsabilità dell'ente relative a reati previsti da leggi diverse dal codice penale, quali, appunto, gli illeciti ex artt 2621 ss. c.c..
Inoltre viene introdotto l' art 25 ter nel d.lg. n. 231 (Reati societari).
In questa nuova disposizione vengono - al solito - indicate, per ciascuna nuova violazione imputabile all'ente, le cornici edittali delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogabili alle società. In altri termini: il numero minimo e (comunque l'indefettibile numero) massimo delle quote, secondo il particolare meccanismo di commisurazione delle sanzioni pecuniarie previsto dal d.lg. n. 231.
Sono molteplici le questioni poste dal decreto delegato de quo, specie se raffrontato con i princìpi generali della normativa sulla responsabilità degli enti ex lege 300 del 2000 e d.lg. 231 del 2001.
Innanzitutto va rilevato che il decreto in esame non si limita - come il d.lg. 231 con gli originari artt 24 e 25 e la legge n. 409 del 2001 con il successivo art 25 bis - ad introdurre, per il tramite dell'art 25 ter, disposizioni sull'entità delle sanzioni, ma sembra intervenire anche sulla "parte generale" dell'illecito amministrativo dell'ente, e precisamente sul criterio di imputazione oggettiva dell'illecito.
Si parla infatti di reato commesso "nell'interesse" della società, a differenza del criterio generale che attribuisce rilevanza al reato commesso "nell'interesse o a vantaggio" dell'ente.
- Il reato commesso "nell'interesse" della società -
In relazione al criterio della commissione del reato "nell'interesse della società" è stata espressa un'obiezione anche nel parere fornito dalla Commissione Giustizia del Senato, che è opportuno riportare integralmente:
"...al nuovo articolo 25 ter del decreto legislativo n. 231 del 2001 si suggerisce di sopprimere le parole ‘se commessi nell'interesse della società da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza qualora il fatto non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica'.Nello stesso parere, si continuava rilevando che
"...la formulazione che lo schema propone potrebbe ingenerare dubbi sul piano interpretativo, in quanto potrebbe essere anche letta come limitativa dei presupposti di responsabilità dell'ente (si osservi, ad esempio, come essa letteralmente non preveda la responsabilità dell'ente, nel caso in cui il reato sia commesso da chi esercita di fatto la gestione dello stesso, essendo però un tale risultato in contrasto non solo con il sistema delineato nei citati articoli 5, 6 e 7 del decreto legislativo, ma anche con la direttiva di delega risultante dalla lettera e) dell'art 11 della legge n. 366 del 2001".
Tuttavia, a ben vedere, l'unico criterio davvero rilevante per ritenere responsabile l'ente è proprio quello dell'interesse: il vantaggio conseguito da un reato non impegna l'ente sul piano sanzionatorio (pur se oggetto di confisca obbligatoria), se il reato è stato commesso nell'interesse dell'autore o di terzi (cfr. art 5 comma 2 d.lg. 231).Quindi - in definitiva - la formulazione del criterio contenuta nel d.lg. 61 è forse addirittura più corretta: tuttavia non può non rilevarsi come sia stata inserita solo con riferimento ad una tipologia di reati e non come regola generale (quale, appunto, quella contenuta nell'art 5 d.lg. 231).
- La rilevanza dei modelli di organizzazione e gestione -La formulazione contenuta nell'art 25 ter in relazione ai reati commessi dai c.d. sottoposti ("qualora il fatto non si fosse realizzato se essi - i soggetti di vertice, ndr - avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica") suscita l'interrogativo se il criterio in questione sia sostitutivo rispetto a quello consistente nell'adozione ed efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione (art 7 d.lg. 231), ovvero complementare rispetto ad esso.
In altri termini: per i reati societari è sufficiente una generica culpa in vigilando dei soggetti di vertice, piuttosto che una specifica negligenza degli stessi, consistita nella mancata adozione ed attuazione dei compliance programs?
E' stato già - ci sembra in modo difficilmente condivisibile - sostenuto che
"nell'ipotesi di reati quali il falso in bilancio compiuto dagli amministratori, la responsabilità della società nel cui interesse (anche solo parziale) quel reato è stato compiuto sarà in re ipsa, senza la possibilità di invocare "modelli di organizzazione e di gestione" finalizzati a prevenire quegli stessi illeciti" (LANZI, Guida al diritto, 16/2002, 10).
A mio avviso, invece, è proprio nell'osservanza/inosservanza dell'obbligo (rectius: onere) posto dall'art. 6 D.Lgs. n. 231, dell'adozione ed efficace attuazione del modello di prevenzione/vigilanza che si individua, e risiede, la "fonte di legittimazione" del sistema della responsabilità della persona giuridica in quanto tale. Pertanto, pur censurando la formulazione poco chiara dell'art 25 ter, si deve comunque ritenere che anche ai reati societari debbano essere applicati i principi generali di cui al d.lg. 231: anche e soprattutto per il dettato della legge delega n. 366 del 2001 (PALIERO, Guida al diritto, 16/2002, 44).
Non si può comunque non condividere l'opinione di chi ha affermato che è, quest'ultimo,
"uno degli aspetti di maggiore problematicità della riforma adottata, che sembra richiedere adeguati quanto repentini interventi di puntualizzazione quanto meno in sede interpretativa per restituire la massima coerenza sistematica ad un intervento di riordino che risulta ispirato proprio da esigenze di razionalizzazione complessiva" (CAPUTI, Summa, maggio 2002, 64).
- I soggetti che possono coinvolgere la società -Infine va evidenziata la differente individuazione delle persone fisiche che possono coinvolgere la società operata dal d.lg. 61 rispetto alla disciplina generale posta dal d.lg. 231.
Si parla di "amministratori, direttori generali e liquidatori" per la categoria degli apicali e di "persone sottoposte alla loro vigilanza" per i dipendenti. Non si può non rilevare la non perfetta coincidenza con i soggetti contemplati dall'art 5 del d.lg. 231, che, come è noto, fa riferimento alle "persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa"; alle "persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo"; e per i sottoposti, alle "persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza (degli apicali)".
Tuttavia ciò che colpisce davvero è che l'art 25 ter non considera la gestione di fatto.
Non nutro troppi dubbi nel senso che i futuri interventi giurisprudenziali considereranno rilevanti anche le attività svolte dagli amministratori di fatto.
Resta però discutibile l'applicabilità della regola di cui all'art 2639 c.c. - l'equiparazione della gestione di fatto alla gestione svolta dal soggetto munito di qualifica - anche nell'ambito delle ipotesi di responsabilità amministrativa delle società: l'art 2639 sancisce tale equiparazione, infatti, in relazione ai "reati" previsti nel Titolo XI del codice civile.
(Maurizio Arena)